Recensione Alone (2007)

Un horror intelligente, ancorché legato alle convenzioni delle ghost story orientali, che affronta un tema da sempre suggestivo per il genere come quello dei gemelli monozigoti.

L'orrore della separazione

Periodo estivo, periodo di recuperi. La nostrana abitudine di lasciar fuori dalle sale, nei mesi estivi, i "pezzi da novanta" della grande distribuzione (con qualche importante eccezione, vedi il recente Toy Story 3) ha portato anche quest'anno, nelle semideserte sale nostrane, una mistura alquanto eterogenea di commedie, pellicole d'autore, horror di tutte le latitudini e film di genere del più vario livello qualitativo, non di rado di produzione non proprio recentissima e recuperati all'uopo. E' il caso di questo Alone, horror thailandese datato 2007 e distribuito dalla neonata Wave Distribution, che ha in cartello anche i conterranei Coming Soon e 4Bia, il primo già in sala e il secondo in uscita a settembre. Con questi ultimi, la pellicola in questione ha in comune rispettivamente lo sceneggiatore Sopon Sukdapisit e i due registi Banjong Pisanthanakun e Parkpoom Wongpoom, nuovi enfant prodige dell'horror thailandese, già noti per l'interessante, ancorché derivativo, Shutter.
Qui siamo di fronte a una pellicola che affronta un tema da sempre suggestivo per il genere come quello dei gemelli monozigoti (basti ricordare gli occidentali, e invero più autoriali, Le due sorelle e Inseparabili), con l'impostazione tipica delle ghost story orientali, un occhio al coreano Two Sisters e uno alle infinite, e ancora non esaurite, derivazioni post-Ringu.

La trama è incentrata sul personaggio della giovane Pim, una vita soddisfacente in Corea e un marito premuroso, un passato doloroso apparentemente lasciato alle spalle insieme alla sua vecchia vita nel paese natale. Ma quest'ultima torna inaspettatamente, e drammaticamente, a reclamare l'attenzione della ragazza, quando una telefonata la informa che sua madre è in ospedale, gravemente malata. Il viaggio in Thailandia sarà l'occasione, per Pim, di far riemergere il ricordo della sorella Ploy e le circostanze drammatiche della morte di quest'ultima e della loro separazione: ma non sarà solo un ricordo quello che Pim troverà nella vecchia residenza di famiglia, ma la palpabile e apparentemente vendicativa presenza di Ploy.

Quello che certo non manca ai due giovani registi thailandesi è il talento visivo, insieme a una notevole capacità di riproporre topoi e meccanismi narrativi tipici dell'horror asiatico senza per questo veicolare quel senso di stantio e di già visto che caratterizza ormai gran parte delle produzioni di genere. La relativa mancanza di originalità del soggetto è ben compensata da una confezione impeccabile, con un gusto quasi pittorico dell'inquadratura, evidente in quei flashback, emotivamente potentissimi, sul passato della protagonista e della sua defunta sorella: quei toni virati al seppia vogliono comunicare un ricordo che è dolce e doloroso insieme, una memoria inquieta che nonostante tutto vuole venire a galla.

La regia indugia su particolari e oggetti che rappresentano il passato, una vecchia cicatrice e un paio di occhiali, le foto delle due protagoniste e i disegni che le raffigurano, opera di un altro personaggio che con esse condivide il fardello della malattia e della solitudine: simboli di una simbiosi che è mentale prima che fisica, ma che porta con sé il germe della sua inevitabile dissoluzione. Mentre i due registi si muovono abilmente tra spaventi già visti e sperimentati, ma comunque abilmente dosati, e la progressiva rivelazione di una realtà che la protagonista ri-vive e ri-sperimenta con immutato dolore, la narrazione si tinge inevitabilmente di melò: è un sentimento disperante e disperato, in fondo, il motore della storia, e sarà questo a portare alla sua inevitabile conclusione.
Gli sviluppi degli ultimi minuti non sono forse del tutto imprevedibili per chi sia avvezzo alle convenzioni narrative del genere, ma la conclusione ha il pregio di mantenere quel tasso di ambiguità che da sempre rappresenta un motivo di interesse in più per pellicole come questa. Un cenno va fatto anche per la protagonista Marsha Wattanapanich, in un ruolo sfaccettato e non semplice, che prende su di sé (cosa inusuale per un horror) buona parte del peso della pellicola; l'ottimo commento musicale, inquietante e malinconico insieme, completa il quadro di un film realizzato con intelligenza e professionalità, segno che si può aderire alle convenzioni di un genere senza per questo perdere in profondità, spessore, e capacità di raccontare per immagini.

Movieplayer.it

3.0/5