Recensione Il mi$$ionario (2009)

Delattre si cimenta con una parodia del poliziesco basata sulla struttura della commedia degli equivoci. Nonostante possa contare su qualche situazione comica riuscita, il film ben presto si inceppa in una sceneggiatura troppo tradizionalista e politically correct.

Le vie del $ignore sono (in)finite

La cinematografia francese è una delle più vivide, variegate e articolate d'Europa. Può contare su una tradizione sedimentata che non si limita solo al cinema dei grandi autori, ma si estende anche a un'industria ricca di generi, dall'horror, alla commedia sentimentale, passando per il poliziesco con tinte noir, ovvero il polar. Naturale quindi che ci sia anche spazio per una produzione spiccatamente commerciale, la cui preoccupazione principale è quella dell'incasso al botteghino. Molto spesso si tratta di farse o commedie degli equivoci, giocate a volte su meccanismi elementari e su una comicità di grana grossa per accontentare la fascia più ampia possibile di spettatori. Alcuni di questi film ottengono dei successi nazionali spropositati, creando dei veri e propri fenomeni, come è capitato qualche anno fa con la saga de I visitatori e, più di recente, con il fortunatissimo Giù al nord. Per la maggior parte, tuttavia, questi prodotti si basano su uno stile comico d'impianto eccessivamente locale, che pone l'accento su giochi linguistici, su riferimenti alla cultura popolare francese e sulle virtù recitative di mattatori d'Oltralpe, destinati inevitabilmente a perdersi nel doppiaggio italiano.

Il mi$$ionario di Roger Delattre ricade appieno in questa categoria. Si tratta di una delle più classiche commedie degli scambi di identità, i cui meccanismi di base (l'inversione dei ruoli, il travestimento, il ribaltamento delle aspettative, lo spostamento di un personaggio in un contesto che non gli appartiene) risalgono addirittura al teatro antico greco e latino. Protagonista è, infatti, l'ex criminale Mario Diccara (Jean-Marie Bigard) che, dopo aver scontato sette anni di prigione per un furto di gioielli, è braccato dai soci del colpo, bramosi di agguantare la loro parte della refurtiva. Mario ha bisogno di far calmare le acque per qualche tempo, ma l'unica persona di cui può fidarsi è il fratello Patrick (David Strajmayster), che nel frattempo ha preso i voti sacerdotali. Patrick non trova di meglio che camuffare il fratello con un abito talare e inviarlo in un remoto paesino della Francia del Sud, a rifugiarsi presso l'amico parroco Padre Etienne. Sfortunatamente il prete è appena morto e tutti gli abitanti del villaggio credono che Mario sia il suo sostituto. Comincia così una prevedibile girandola di equivoci che porterà l'ex galeotto a identificarsi sempre di più con l'abito che indossa; mentre all'opposto il fratello Patrick intraprenderà un cammino verso la dissolutezza. Naturale che Mario all'inizio commetta numerose gaffe, dando origine a svariate gag (in particolare durante una messa celebrata grazie ai suggerimenti telefonici del fratello). Ma alla fine il nostro uomo riuscirà perfettamente a calarsi nei panni sacerdotali, fornendo - anche se con metodi decisamente poco ortodossi - un prezioso aiuto ai cittadini in difficoltà.
Il film di Roger Delattre si regge tutto su questa esile ossatura, dallo schema ormai più che rodato e prevedibile (sulla stessa scia aveva fatto molto meglio il delizioso Non siamo angeli di Neil Jordan, a sua volta remake di un classico di Michael Curtiz). Il regista, allievo di Luc Besson (che qui produce) e appassionato del cinema di genere degli anni Sessanta e Settanta, cerca di confezionare una parodia dei polar francesi e dei poliziotteschi italiani. Lo stesso protagonista, Mario Diccara, fa smaccatamente il verso a Lino Ventura, star di tanti gangster movie d'Oltralpe. Gli omaggi a Sergio Leone, Jean-Pierre Melville e Francis Ford Coppola si sprecano; contaminati però da uno stile ritmico e vorticoso tendente al videoclip. Non per niente Daratte si è anche cimentato con i video musicali, mentre la spalla che impersona Patrick - David Strajmayster, in arte Doudi - è un noto comico della tv francese specializzato in brevissimi sketch. Nonostante possa contare su qualche situazione comica riuscita, in particolare in virtù della presenza fisica del protagonista, il film ben presto si inceppa in una sceneggiatura troppo tradizionalista e politically correct, concludendosi perfino con un matrimonio tra due giovani, un arabo e un'ebrea, dove Mario si improvvisa addirittura come mediatore del conflitto israeliano - palestinese! L'unico valore aggiunto al film è l'eccezionale performance di Jean-Marie Bigard, showman famosissimo in Francia, che qui rinuncia alla sua mimica frenetica per fornire un'interpretazione minimalista e giocata sul filo dell'understatement. Peccato non averlo visto all'opera in un autentico e fumoso polar...