Conversando con Giorgio Diritti, regista dalla forte impronta etica

Sulla scia della forte impressione che Il vento fa il suo giro e L'uomo che verrà hanno saputo destare in noi, ci siamo messi in contatto con il cordialissimo Giorgio Diritti, cineasta di spessore umano ed artistico davvero notevole.

Ricordiamo ancora con un brivido quella grande ed intensa emozione, da noi provata quando al Festival del Cinema di Roma è stato presentato L'uomo che verrà. Il film di Giorgio Diritti, cineasta che si era già imposto all'attenzione dei cinefili più attenti con Il vento fa il suo giro, ha confermato una sensibilità registica fuori dal comune, tale da consentirgli l'approccio giusto a un tema delicatissimo: la strage di Marzabotto. Non era certo facile portare sul grande schermo questo crudele esempio della barbarie nazista, noto anche come l'eccidio di Monte Sole. Diritti ci è riuscito senza mai forzare la mano in direzione della retorica, ma proponendo al contrario un'umanità di fondo capace di conquistare lo spettatore sin dalle prime inquadrature.
La commozione dell'autore e del cast poteva essere colta a distanza, sia prima della proiezione, che al riaccendersi delle luci in sala, quando il pubblico ha manifestato le proprie emozioni con diversi minuti di applausi. A coronamento di questa fortunata partecipazione al festival romano sono arrivati il Premio del Pubblico (non a caso) e il Gran Premio della Giuria. Ma ora che L'uomo che verrà sta finalmente per approdare in sala, ci siamo decisi a contattare il regista, per investigare un po' più a fondo sul suo modo di fare e di intendere il cinema.

Quali sono state le motivazioni che ti hanno spinto a girare un film come L'uomo che verrà, e in quale misura hai avvertito la responsabilità di portare al cinema una vicenda tanto tragica, la strage di Marzabotto?

Giorgio Diritti: Le motivazioni sono legate alla voglia di fare cinema facendo al contempo qualcosa che sia utile. Il film è una riflessione sulla società che diventa poi analisi del presente, perché anche se la storia in questione risale a sessant'anni fa vi è sempre la possibilità di tracciare un parallelo con la realtà che viviamo oggi. Si tratta di lasciare un esempio affinché episodi del genere non accadano più.
Anni fa ho potuto approfondire la mia conoscenza di quanto accadde a Monte Sole, ed è da qui che è nato un impegno morale: sul martirio di questa gente non deve cadere il silenzio. Più in particolare mi è stato regalato un libro, Le querce di Monte Sole di monsignor Luciano Gherardi, che attraverso il ricordo dei compagni di Seminario trucidati dai nazisti aiuta a ricostruire ciò che accadde agli altri, lo sterminio di tante persone indifese. Anche il mio, insomma, può essere considerato un impegno di testimonianza.

Allargando il discorso al tuo primo film, Il vento fa il suo giro, si coglie un possibile "trait d'union" tra come viene lì rappresentata la vita in una comunità montana delle Alpi piemontesi, ed il mondo rurale da te descritto in L'uomo che verrà. Questa attenzione all'elemento antropologico, al realismo delle situazioni, avvicina forse il tuo cinema a quello di Ermanno Olmi, Franco Piavoli e Mario Brenta?

Giorgio Diritti: I nomi che hai citato corrispondono a persone con cui sento di avere diverse affinità e che stimo profondamente. Per quanto riguarda poi le due pellicole da me realizzate, il senso di realismo è importantissimo. Bisogna aver cura di una ricostruzione che renda il racconto universale, popolare, perché queste sono le storie della gente. Ed il fatto che la gente si immedesimi nei personaggi è strettamente legato alla componente realistica e al senso di verità.

Sempre a proposito di questi due film, ci sembra che in entrambi i casi il realismo si leghi a scelte fotografiche molto coerenti e appropriate, oltre che suggestive. Il direttore della fotografia Roberto Cimatti rientra quindi tra i tuoi collaboratori di fiducia?

Giorgio Diritti: Sì, dopo Il vento fa il suo giro ho continuato a lavorare con Roberto Cimatti, che all'aspetto del realismo presta grande attenzione, sebbene un film come L'uomo che verrà abbia rappresentato per noi un'ulteriore sfida. Ci siamo soffermati infatti sul punto di vista della bimba, Martina. Questo ci ha portato a lavorare di nuovo su una dimensione realistica, che però in qualche scena potesse avvicinarsi, senza tradire l'impostazione di fondo, all'ottica della fiaba.
Essenziali sono state poi le ricerche che abbiamo svolto nella Cineteca di Bologna. Abbiamo visionato tantissimo materiale d'archivio, così da poter dare indicazioni anche agli altri comparti, in particolare a chi ha curato la scenografia, i costumi. Ci hanno poi aiutato le foto fatte nell'Appennino, che del periodo in questione testimoniano la povertà, i vestiti logori. Durante la lavorazione del film non abbiamo sentito il bisogno di vedere o rivedere altri film del filone resistenziale. Abbiamo preferito realizzare interviste con chi ha vissuto direttamente quell'epoca, magari semplici contadini che fossero in grado di parlarci delle azioni dei partigiani ma anche e soprattutto di elementi della vita quotidiana; ad esempio chi aveva diritto di parlare a tavola e chi no, insieme ad altri aspetti inerenti al tempo di guerra o alle più consolidate abitudini famigliari. Tutto facente parte di un patrimonio emotivo, anche doloroso, con cui sentivo il bisogno di confrontarmi.

Parlaci un po' del casting, operazione che qui ci pare particolarmente interessante e significativa, considerando che L'uomo che verrà vede recitare insieme attrici già affermate come Maya Sansa e Alba Rohrwacher, soggetti di formazione teatrale come il bravissimo Claudio Casadio, attori emergenti come Diego Pagotto, insieme a svariati interpreti non professionisti.

Giorgio Diritti: Guarda, si tratta sempre di una scommessa. Io sono solito dire che fare un film è come preparare una cena. Nel senso che si tratta di fare attenzione agli elementi che metti insieme, selezionare bene gli ingredienti, badare alla cottura. Non vi è una ricetta che vale in assoluto, conta piuttosto ciò che è giusto per quella particolare situazione.
Quando per esempio ho incontrato Diego Pagotto, ho subito pensato che avesse una faccia interessantissima, giusta per quella parte. Lo stesso potrei dire per Orfeo Orlando, nel ruolo del mercante che viene da Bologna. Per questo motivo lavoro senza un "casting director", mi piace trovare direttamente le persone. Una cosa, questa, che i registi fanno sempre di meno. Ricordo invece come un'esperienza bellissima il casting di Federico Fellini per La voce della luna, da parte sua c'era sempre una grande curiosità!
Riguardo ai nomi più importanti del cast, posso dire che si sono integrati benissimo con gli attori non professionisti, anche perché i paesani che ho scelto per L'uomo che verrà potevano dar loro una mano ad imparare il dialetto, col quale era necessario che prendessero confidenza al più presto. Tutto ciò ha contribuito al fatto che sul set si respirasse un'atmosfera di collaborazione.

Ci sembra che tra i pregi indiscutibili del film vi siano la sensibilità, il rispetto, con cui sono state trattate a livello registico le parti più dolorose, quelle relative al massacro. In certi momenti lo scenario ci ha fatto pensare addirittura a Terrence Malick...

Giorgio Diritti: Ho sentito anche da altri critici questo accostamento. In realtà ho seguito il mio istinto, di sicuro non volevo cadere nello splatter, né fare qualcosa di volgare o di offensivo; ma al tempo stesso volevo che fosse forte l'impatto, nell'esprimere il dolore.
L'impressione che volevo dare agli spettatori è di osservare la tragedia da dietro un albero, da dietro un riparo, come se fossero costretti a guardare tutto l'orrore, pur non essendo stati presi dai tedeschi. Molto importanti, anche qui, sono state le interviste con i sopravvissuti, i racconti di chi ha vissuto quel periodo, da cui traspare grande pudore nel rievocare i fatti più dolorosi, almeno nei casi in cui non è subentrata col tempo la rimozione.
In più mi sono adoperato affinché da questo viaggio nel passato emergesse la speranza in un futuro differente, che poi mi sembra il significato più profondo della Resistenza.

Cosa è cambiato invece tra un film e l'altro, a livello produttivo?

Giorgio Diritti: Ovviamente rispetto a Il vento fa il suo giro l'impegno produttivo è stato molto maggiore, il che ha implicato una diversa responsabilità, per esempio nel rapportarsi con la RAI e con gli altri enti che hanno sostenuto la realizzazione del nuovo lungometraggio.
Però il fatto di essermi potuto dedicare con estrema libertà al precedente lavoro ha fatto sì che, anche in seguito, potessi pormi quella libertà come obiettivo. Oggigiorno non è certo facile poter lavorare con tale serenità, riducendo al minimo le pressioni.

Con Il vento fa il suo giro è la lingua d'oc ad approdare sul grande schermo, mentre L'uomo che verrà propone dialoghi in dialetto. Da cosa deriva questo interesse di natura linguistica?

Giorgio Diritti: Nell'ambito del primo film la lingua si presentava anche come elemento caratterizzante del racconto. A confrontarsi erano personaggi con percorsi ed origini differenti, ma l'elemento di scontro non era rappresentato certo dall'identità linguistica, o culturale, quanto piuttosto dalle invidie, dall'ostilità racchiusa in certi comportamenti arcaici.
Per L'uomo che verrà penso che a prevalere sia il desiderio di calarsi nella realtà dell'epoca, come se si avesse a disposizione la macchina del tempo. Anche per questo i contadini parlano tra loro in dialetto e si esprimono in italiano solo con quelli che vengono dalla città, il che rende già l'idea delle differenze sociali, accentuando poi l'impressione di isolamento umano.

Come ha reagito la comunità occitana alla realizzazione del tuo primo film? Può essere che la chiusura mentale attribuita a certi personaggi abbia infastidito qualcuno?

Giorgio Diritti: In generale Il vento fa il suo giro ha ricevuto un'accoglienza favorevole, positiva, lì sono in tanti ad averci sostenuto prima e dopo le riprese. Poi ci sono quelli simili ai personaggi più chiusi, egoisti, che ho voluto rappresentare nel film, con loro il discorso inevitabilmente cambia perché pensano in termini in propaganda: sono convinti che abbia fatto loro una cattiva pubblicità.
Ma per fortuna la maggioranza delle persone è accogliente, ci ha aiutato sin dall'inizio, continuando a credere che la montagna abbia un futuro. Inoltre è piacevole sapere che in Val Maira il dibattito intorno al film prosegue, difatti mi giunge notizia ogni tanto di qualche bollettino parrocchiale o di altre iniziative orientate in tal senso.

Che prospettive vedi per il cinema indipendente in Italia, nonché per la cultura in genere, visto anche l'attuale quadro politico?

Giorgio Diritti: Continuo a sentire dichiarazioni di ministri, di soggetti a loro vicini, che ostinatamente prendono di mira la cultura, il mondo della scuola, perché così si sentono importanti o comunque nella condizione di ignorare l'evidenza; e cioè che anche attraverso gli studi, attraverso esperienze che loro rendono difficili agli altri, sono arrivati ad occupare determinate posizioni. Ma questo non vogliono ammetterlo, preferiscono ridurre ogni discorso all'aspetto economico, con quegli effetti negativi sulla società che è fin troppo facile prevedere.