Recensione Niente velo per Jasira (2007)

L'esordio nel lungometraggio di Alan Ball è efficace ed intenso, grazie soprattutto a quell'umanità tipica dei suoi prodotti che ci restituiscono ogni volta un'immagine più miserabile, ma certamente più vera dell'America.

Cosa è giusto e cosa è sbagliato

Ci ha regalato i migliori prodotti seriali degli ultimi otto anni, mentre un decennio fa vinceva l'Oscar per la sceneggiatura con quello che è facile considerare il ritratto più limpido e incisivo dell'America di fine millennio. Con Six Feet Under, True Blood e American Beauty, Alan Ball si è guadagnato di diritto un posto d'onore tra le menti illuminate d'oltreoceano, grazie a un'abilità di scrittura che ha saputo raccontare in modo graffiante e originale le contraddizioni di un paese che nasconde nelle graziose villette dei sobborghi tutto l'orrore di cui è capace. Con Niente velo per Jasira, Ball è chiamato ora a una prova importante: affrontare la sua prima regia di un lungometraggio adattando per il grande schermo un romanzo, Beduina di Alicia Erian, che si sposa alla perfezione con i temi e i personaggi a lui cari, offrendogli così la possibilità di lavorare e modellare un materiale già pronto da screziare con il suo inconfondibile humour nero e le sue sortite visionarie.

Il suburbio esplorato stavolta è quello di Houston, dove una tredicenne in pieno sbocciare viene spedita per mantenersi sulla retta via sotto l'egida del padre, un uomo originario del Libano che intende educare sua figlia con voce grossa, imposizioni tiranniche e per lo più bigotte, e qualche pesante ceffone in caso di disobbedienza. Attorno alla povera Jasira ronzano però una serie di uomini interessati a far proprio quel corpo in divenire, e a rubargli l'innocenza sarà un riservista americano che alla moglie preferisce la compagnia di una teenager con lo sguardo ingenuo e la carne fresca. Ball procede quindi nell'esplorare la pedofilia e la sua mostruosa normalità: la ragazzina guarda con ammirazione e curiosità l'uomo che non riesce a frenare i suoi istinti e si fa travolgere da pulsioni e desideri inconfessabili. La tensione sessuale che permea l'intero Towelhead (questo il titolo originale del film) sfida d'altronde lo stesso spettatore, che deve confrontarsi con le emozioni messe in campo. Le contraddizioni agitano tutta l'opera che si fonda su un quesito fondamentale: cosa è giusto e cosa è sbagliato? I confini sono però decisamente sfumati, e il disorientamento della piccola protagonista in un mondo di lupi con la faccia d'angelo si fa immagine nitida di una società allo sbando, dominata dal sesso che non sa porsi limiti e scomposta da idee sbagliate che falliscono nell'educazione e storpiano le grandi questioni sociali.
D'altra parte, l'orgoglio americano, rimarcato anche qui con ironia da quelle bandiere che sventolano fiere sulle aste nel viale, deve scontrarsi con le incoerenze di una guerra (quella del Golfo per neutralizzare Saddam Hussein) risultando a conti fatti l'ennesima espressione di un perbenismo di facciata che occulta differenti atteggiamenti. Il regista evita l'escamotage di una regia accattivante, mantenendola al servizio dei personaggi che con la loro umanità riempiono di senso la storia. Le parentesi surreali proprie di Ball sono ridotte al minimo e francamente sorvolabili, anche perché i tempi dilatati allargano il film a una durata di ben due ore. Ma è un tempo necessario per far maturare nello spettatore un disagio e nello stesso tempo una fascinazione colpevole verso quello che accade sullo schermo. L'aggraziata Summer Bishil è chiamata a gestire i conflitti che segnano il passaggio del suo personaggio all'età adulta, e ad affrontarli con estrema innocenza: le prime mestruazioni, la scoperta del proprio corpo e del piacere che può procurare, il primo orgasmo, il primo corpo che la viola sono tappe obbligate in un processo di maturazione fondato per forza di cose sulla sessualità. Su certe drammatiche esperienze è difficile però ironizzare, e il tono del film sembra farsi talvolta incerto, soprattutto quando la scomodità degli eventi non può stemperarsi nella leggerezza. L'esordio nel lungometraggio di Alan Ball è però efficace ed intenso, grazie soprattutto a quell'umanità tipica dei suoi prodotti che ci restituiscono ogni volta un'immagine più miserabile, ma certamente più vera dell'America.