Recensione Garage (2007)

Il tocco delicato di Abrahamson sa dribblare bene gli eccessi, evitando di amplificare quel travaglio di fondo che si esprime già bene nella faticosa esistenza del suo protagonista.

La vita è sempre un passo più in là

Arriva dall'Irlanda un piccolo film di emarginazione e vita rurale, che si consegna alla tristezza senza però mai ostentarla. Protagonista di Garage è un uomo di mezza età con qualche problema di troppo, sia a livello fisico che mentale, che gestisce una stazione di servizio in mezzo al nulla, dove i camionisti si fermano per una breve sosta lasciando all'uomo le fantasticherie sui luoghi che stanno per raggiungere o hanno appena lasciato. Eppure Josie non ha mai sognato di andarsene altrove, la sua vita è tutta lì, nei gesti rituali della sua monotona quotidianità, dove tutto resta nei confini dell'ordinario, tra la benevolenza di chi lo accetta per quel che è e le angherie di chi approfitta della sua debolezza. Per alcuni una non-vita, per lui la faticosa costruzione della normalità attorno al niente: i sogni, l'amore, il benessere sono tutti un passo più in là, in un territorio che a lui non è concesso visitare.

Dopo Adam & Paul, Leonard Abrahamson torna a raccontare una storia di perdenti, affiancando alla solitudine del protagonista il miraggio di un'amicizia con un quindicenne con la testa tra le nuvole. La complicità tra i due si costruisce giorno dopo giorno, in quella disposizione naif dell'uomo ad avvicinarsi al ragazzo condividendo con lui i suoi piccoli piaceri: una bibita con i biscotti, una lattina di birra, un film porno. Quando però l'uomo cadrà ingiustamente nell'infamia, montata come al solito dalla volgarità di paese, per lui ci sarà solo una vergogna insopportabile da nascondere goffamente dietro una mano. C'è tanta tenerezza in questo ritratto di uomo adorabilmente ingenuo, che s'affaccia alla vita senza però rilevarne il male, come se lo spazio per sognare di vivere in un mondo decente non fosse stato ancora rosicchiato tutto dalle continue brutture che lo abitano.
La regia si aggrappa spesso ai magnifici panorami dell'entroterra irlandese, addobbando dei suoi colori una storia che rischia continuamente di farsi nera. Eppure il tocco delicato di Abrahamson sa dribblare bene gli eccessi, evitando di amplificare quel travaglio di fondo che si esprime già bene nella difficile esistenza del suo protagonista. La malinconia del suo viso, stemperata sempre da un sorriso coraggioso, non ha bisogno di accenti e sottolineature: bastano anche solo le carezze ad un cavallo ugualmente solo per comprendere tutto ciò che c'è da capire. Non è difficile scorgere una partitura à la Robert Bresson, la cui influenza appare lampante nel finale sussurrato, ma l'originalità non è certo il punto di forza di Garage. Di storie di perdenti d'altronde il cinema è pieno, raramente però si è vista in esse l'umanità di cui trabocca Josie, interpretato da un convincente Pat Shortt.