Recensione Visions (2009)

L'esordio di Luigi Cecinelli è un thriller a basso costo in anticipo sulla programmazione estiva. Ciò di cui difetta in particolar modo è la mancanza di una sceneggiatura originale e, soprattutto, coerente.

Visioni urticanti

L'improvvisa ondata di calura deve aver sortito strani effetti anche nella distribuzione cinematografica. Infatti, con le prime avvisaglie della bella stagione, esattamente come un nugolo di mosquitos e di zanzare, si affollano nelle sale sciami di pellicole low-budget urticanti e fastidiose, di solito prodotti di serie B riesumati per riempire i vuoti della languida programmazione estiva. E questa volta la metafora entomologica non è frutto della solita esagerazione del critico da strapazzo, perché Visions, lungometraggio d'esordio di Luigi Cecinelli, comincia proprio così: una frotta di mosche, vespe e tafani mette fuori combattimento nientemeno che un'intera squadra di SWAT. Questa è la prima, "sconcertante", trappola escogitata da uno psicopatico serial killer, che non per niente si fa chiamare Spider. Tanto per chiarire la metafora, infatti, il maniaco omicida cattura le proprie vittime e le costringe a vivere in uno stato comatoso, appendendole al soffitto proprio come se si trattasse di insetti imprigionati in una ragnatela. Sulle sue tracce si mette lo psicologo Dr. Leemen (si pronuncia limen, che in latino significa "soglia", "confine": afferrato il concetto?) che però, logorato dal senso di colpa per aver condotto alla morte la sua squadra, si dimette dall'FBI e torna a lavorare in una clinica psichiatrica. Tuttavia l'ombra di Spider torna a perseguitare il Dottore quando in clinica giunge Matthew, entrato in coma in seguito a un trauma e risvegliatosi in stato di amnesia. Il ragazzo è vittima di strane visioni che sembrano collegate alle efferatezze del serial-killer. Matthew e il suo squinternato amico Nick riescono perfino a entrare in contatto con la detective Hope ("Speranza", capito vero?) che, come una novella Clarice Starling a caccia del suo Hannibal Lecter, persegue la sua indagine lottando contro la miopia dei superiori. Come è facile intuire, il colpo di scena è dietro l'angolo (qualcuno ha mai sentito parlare di sindrome della doppia personalità?).

Ciò di cui difetta in particolar modo Visions, come si può facilmente intuire da quanto scritto sopra, è la mancanza di una sceneggiatura originale e, soprattutto, coerente. L'intreccio non fa altro che rimasticare situazioni canoniche del genere e stereotipi visti in migliaia di altri thriller: dai trabocchetti messi a punto dal serial killer che paiono una brutta copia di quelli di Saw - L'enigmista, fino ai temi ormai abusatissimi della doppia identità e delle visioni paranormali. Ma il vero problema è che questa stanca sequela di cliché e di dialoghi da fiction televisiva si concludono con un colpo di scena e con una giustificazione finale che metterebbero a dura prova anche la credulità dello spettatore più ingenuo. Si sarebbe quasi tentati di considerare il film come una sorta di rielaborazione in chiave autoparodica del genere - alla maniera dello Scream di Wes Craven - se non fosse che l'intera operazione sembra priva del benché minimo intento ironico, o di una qualche forma di riflessione teorica. Al suo esordio Luigi Cecinelli pare, anzi, prendersi molto sul serio, ma in effetti non ha ancora maturato una cifra stilistica personale, né possiede alcuna consapevolezza postmoderna e citazionista di stampo Tarantiniano. Sfortunatamente il regista guarda ai modelli statunitensi senza avere né i mezzi tecnici sufficienti, né le capacità stilistiche, né la visione autoriale per emularli. Auguriamoci che si sia trattato soltanto di un colpo di calore momentaneo.