Recensione Vincere (2009)

Il regista emiliano scoperchia la selva di tenebre che custodisce uno dei tanti misteri della misera Italia, quello legato a un paradigmatico momento storico nero come le camicie di chi la infestava, e va a immergersi negli occhi gonfi di lacrime di chi, confinata ai margini, era costretta a gridare per far sentire la propria verità.

Per non dimenticare

Se c'è una grande verità che afferma Vincere di Marco Bellocchio è quella che Dio non esiste. Un Benito Mussolini ancora uomo, ma già col petto in fuori, lo aveva d'altronde sfidato concedendogli cinque minuti per fulminarlo, la sua donna amata e abbandonata in manicomio, Ida Dalser, mendicava per pietà alla Madre Superiora una visita di suo figlio per sentirsi dire che la felicità è una questione da sbrigare solo nella prossima vita. Dio tace e acconsente all'orrore, sempre. Quante stilettate che mette a segno Bellocchio in questo film, e quanto assurdo dolore la prepotenza e l'indifferenza sanno causare. Il regista emiliano scoperchia la selva di tenebre che custodisce uno dei tanti misteri della misera Italia, quello legato a un paradigmatico momento storico nero come le camicie di chi la infestava, e va a immergersi negli occhi gonfi di lacrime di chi, confinata ai margini, era costretta a gridare per far sentire la propria verità. 'Se io muoio chi si ricorderà di me?, diceva Ida Dalser, mentre attorno al suo amore di una vita una ringhiosa Rachele Guidi ne invadeva il territorio. E' una faccenda romantica e privata d'amore eterno con le sue drammatiche conseguenze: dopo la passione e insieme la costruzione di un avvenire, l'improvviso abbandono per rincorrere la gloria. Nel territorio tortuoso del pubblico non c'è spazio per accogliere le proprie debolezze, tutto quello che è scomodo va disintegrato.

Finché Mussolini ha ancora i capelli, la passione sa travolgerlo completamente, il legame con Ida è inestricabile, così come i loro corpi che si fondono quando fanno l'amore. La sensualità delle sequenze che corteggiano gli amanti in calore dà più di un imbarazzo, per noi costretti a riconoscere l'umanità di chi sta per diventare un mostro. Sindacalista, esponente del partito socialista, direttore de L'Avanti e pacifista, fiero oppositore di monarchia e Chiesa, nonché uomo innamorato: questo l'identikit di Mussolini prima del delirio di onnipotenza che raccoglierà sotto il suo balcone una sterminata folla di italiani in adorazione. Non avrà la possibilità di farne parte Ida Dalser, la donna del grande amore rinnegato, la madre di un figlio riconosciuto e poi rimosso, fatti marcire entrambi nelle loro solitudini, in quei manicomi che riassumono in spazi stretti l'oscenità della vita. Le rispettive parabole sono narrate con estrema discrezione, contrappuntata da una colonna sonora magniloquente, trovando per ognuno dei protagonisti una differente chiave di stesura: con l'ascesa al potere del fascismo, il talentuoso Filippo Timi sparisce per lasciare spazio ai cinegiornali, ai quali viene affidato il compito di narrare imprese e discorsi esaltati del Duce; Ida Dalser tenta di sottrarsi alla follia rifiutandosi di indossare maschere per affermare decisa la propria verità, con un'interpretazione per una volta mai sopra le righe di Giovanna Mezzogiorno; mentre al piccolo Benito Albino non resta altro che fare la parodia dell'ingombrante padre per il divertimento dei compagni.
Vincere non può farsi mera narrazione, deve anche elevarsi a documento per trovare legittimazione. Così ricorre all'archivio Luce e attraverso un puntiglioso ed entusiasmante lavoro di montaggio incastra al meglio fiction e verità. Bellocchio non si lascia vincere dall'ansia di spiegare, procede per ellissi continue, sapientemente colmate da interventi documentaristici di scuola futurista, e disegna con la sua inconfondibile eleganza, percorsi visivi tortuosi e ammalianti. Grazie anche all'affascinante fotografia di Daniele Ciprì, ci consegna a un tempo sospeso e che però non sembra poi tanto distante da quello in cui siamo costretti ad annaspare oggi. Nel disegnare le traiettorie sbagliate di questi amanti spezzati, racconta un paese che inciampa sempre sugli stessi clamorosi sbagli, porta l'attenzione sul potere dei media (che non è solo quello pericoloso di chi li controlla e sa tramutarli in risorsa preziosa per fabbricare il consenso, ma anche quello di un capolavoro come Il monello di Charlie Chaplin che ha la miracolosa capacità di alleviare il dolore di una madre separata dal proprio figlio, come accade in una delle scene più intense del film) e sa non dimenticare chi viene costretto dalle circostanze a tramutarsi in fantasma. A quel fantasma dedica tutta la seconda parte, drammaturgicamente piuttosto debole, che fa girare il film su sé stesso pur sapendo che non si arriverà da nessuna parte. Grande merito di Bellocchio è aver saputo però arginare i proverbiali isterismi della Mezzogiorno che resta contenuta e lucida fino alla fine, mentre la sua Dalser continua a chiedere di non essere dimenticata. Superfluo lo sguardo in macchina finale, anche perché gli italiani non sono certo gente che impara dagli errori: il Duce ha sempre ragione, recita beffardamente la scritta su un muro. Le dittature sono destinate a cadere, i tiranni ad essere fucilati, ma nel frattempo chi ci salverà dalla sofferenza?