Recensione Milk (2008)

Il film di Van Sant va a farsi voce e guida di una comunità, quella omosessuale, ancora lontana dalla conquista di diritti fondamentali, attraverso il canto di uno dei suoi eroi. Pur trattenendosi nel ricamo visivo della pellicola, il regista rende comunque di notevole impatto il narrato, assicurando grande importanza ad ogni singolo evento di cui dà conto, della vita di Harvey Milk.

Uscite allo scoperto, apritevi alla speranza

L'arte, talvolta, ha bisogno di essere messa da parte. Succede quando il messaggio che si vuole far passare esige chiarezza totale per raggiungere il pubblico e diventare tesoro. Così un'opera può svincolarsi dalle esigenze estetiche dell'occhio più fine, facendo della semplicità un'arma vincente con la quale farsi strada nelle sacche di conoscenza di ogni individuo. Ne sa qualcosa Gus Van Sant, uno dei geni assoluti dell'universo cinema, un regista che negli ultimi anni ci ha regalato le più potenti immagini di quella favola nera che è l'adolescenza, e che oggi arresta per un attimo il suo brillante processo di sperimentazione per raccontare una piccola e significativa storia senza lasciare che il suo estro, la sua dirompente genialità, occluda la narrazione e il significato di cui si fa portatrice. Perché Milk di Van Sant va a farsi voce e guida di una comunità, quella omosessuale, ancora lontana dalla conquista di diritti fondamentali, attraverso il canto di uno dei suoi eroi. E' naturale che l'argomento stia particolarmente a cuore al regista che pur trattenendosi nel ricamo visivo della pellicola, rende comunque di notevole impatto il narrato, assicurando grande importanza ad ogni singolo evento di cui dà conto, della vita di Harvey Milk, il primo politico gay dichiarato ad essere stato eletto a una carica pubblica negli Stati Uniti, quella di consigliere comunale nella vibrante San Francisco degli anni '70.

La figura di Milk è quella del condottiero, dell'ispiratore, che con le sue ostinate e coraggiose battaglie politiche, che l'hanno portato all'orribile morte avvenuta per omicidio nel 1978, è diventato icona di un intero movimento. Van Sant sceglie di mettersi al suo servizio, lascia che a parlare sia la sceneggiatura lineare, quasi scolastica, scritta dal trentaquattrenne Dustin Lance Black che ci racconta non solo dei traguardi di una vita, ma anche delle rotte da essa segnate. Senza mai abbandonarsi al ricatto emotivo, tanto che in certi passaggi si può addirittura avvertire una certa freddezza, Milk si fa commovente quando rivela il messaggio più importante dietro il racconto biografico: stringetevi nella speranza e continuate a lottare. Se della meraviglia si può trovare nel film, è tutta nello spirito di solidarietà che tiene insieme i personaggi, negli abbracci, nell'aggregarsi per andare alla conquista un comune obiettivo: il diritto all'esistenza, la possibilità di uscire allo scoperto senza vergognarsi di sé stessi, senza il timore di venire schiacciati dall'ignoranza altrui. L'amore che fa vibrare il film è una resurrezione, ci restituisce quello spirito che tiene insieme gli individui, quella fiducia che è essenziale riporre nell'altro per ottenere il proprio riconoscimento. Trovandosi a maneggiare personalità dal grande fascino, il regista può approfondire o limitarsi a pennellare, con grande agilità, i personaggi, dotando ognuno di essi di una dignità che si fa essa stessa significante.

Talvolta ridondante nel suo sviluppo, il film di Van Sant ha la capacità di ritagliarsi, oltre la 'cosa pubblica', dei momenti di grande tenerezza. Milk è stato un personaggio che ha dovuto lottare per diventare pubblico, compromettendo inevitabilmente il privato. Chi gli stava accanto non ha retto, schiacciato dalla distanza del quotidiano, ma Milk ha avuto la forza di non impantanarsi nella solitudine, andando dritto per la sua strada, nel suo sogno di sconfiggere i pregiudizi che spesso si cibano dei soliti, agghiaccianti deliri cattolici secondo i quali le fiamme dell'inferno sono pronte ad ardere quella diversità che mette in pericolo l'idea di Famiglia così cara alla Chiesa. Non serve neppure esprimere un giudizio su certe idiozie, così il film invece di schernire si limita a mostrare la realtà con vocazione documentaristica, compresa quindi la sua degenerazione, diventando in questo modo opera di ampio respiro piuttosto semplice da accogliere. Sean Penn si cuce addosso il personaggio di Harvey Milk, lavora con grande meticolosità sulla gestualità e sulla voce, sulla mimica facciale e sulle urgenze che muovevano il personaggio-simbolo che è chiamato a interpretare. L'attore californiano non si risparmia e si regala al pubblico anche nei baci che è disposto a scambiarsi con un James Franco mai così bravo, al quale basta uno scambio di sguardi nel finale per riscattare un'intera carriera. Proprio quel finale ci abbaglia, con le mille luci che si alzano al cielo, e le ultime parole di Milk che diventano per lo spettatore un lungo brivido, una lacrima che muore per creare nuova vita, una carezza calda nella quale accucciolarsi, un invito che va colto, custodito, e condiviso. Uscire allo scoperto e aprirsi alla speranza. 'La speranza di una vita migliore, la speranza di un domani migliore. Perché senza speranza la vita non vale la pena di essere vissuta.'