Recensione Funny Games (2007)

La pellicola di Michael Haneke conserva ancora tutta la sua attualità e l'intelligenza nel metterla in scena, un percorso glaciale che stuzzica chi guarda lo schermo, pilota le sue reazioni, e poi se ne fa improvvisamente beffa senza pietà.

Sadici giochi per spettatori masochisti, rewind and play

Paganini non ripete, Michael Haneke sì. A undici anni dal primo Funny Games, il regista austriaco torna sul luogo del delitto, anche se è un altrove, si diverte a fotocopiare un'opera che aveva fatto all'epoca molto scalpore, divenendo per molti un cult, per gettarla in pasto al pubblico anglofono, e in particolare agli americani, che di sottotitoli e lingue diverse dalla propria non vogliono proprio sentir parlare. Allora riecco i suoi giochi divertenti e spietati masticati beffardamente in inglese, escogitati e subiti da nomi noti del panorama hollywoodiano, anche se Naomi Watts è nata in Gran Bretagna, ma cresciuta in Australia, mentre Tim Roth è così inglese da aver ottenuto il suo primo successo come attore in un tv movie intitolato Made in Britain. I due assassini psicotici invece sono, molto astutamente, americani doc e hanno i volti puliti ed enigmatici di Michael Pitt e Brady Corbet, quest'ultimo al suo secondo ruolo importante dopo quello del ragazzino senza memoria di Mysterious Skin.

Haneke ha tenuto a precisare che questo film è rivolto essenzialmente a chi non ha mai visto l'originale e in effetti non c'è da stupirsi perché ci troviamo di fronte a un remake shot by shot, cioè una perfetta copia per inquadrature e sceneggiatura del primo. Chi ha quindi già sopportato i vecchi giochi potrà quindi fare a meno di vedere il nuovo Funny Games, che ha come unica novità e attrativa i suoi interpreti, talmente bravi e calati nella propria parte, però, da rendere il film eccezionale come il precedente, ancora godibile e detestabile nello stesso momento per quei sentimenti contrastanti che Haneke ha saputo creare con la sua pellicola, un'opera che dialogava molto abilmente con lo spettatore, che cercava la sua complicità per poi fregarlo, che lo accusava di provar piacere per la violenza andando successivamente a spezzare il patto stipulato con lui in termine di sospensione dell'incredulità. Tornano quindi a giocare vittime e carnefici: da una parte la famigliola in vacanza che vuol finalmente godersi quel che possiede, dall'altra una coppia di ragazzi perbene che si presentano alla loro porta sfoggiando estremo garbo, prima di intrappolarli in un incubo di sopraffazione psicologica e tortura fisica assolutamente immotivata.

Funny Games è innanzitutto una riflessione sul consumo della violenza al cinema, sul godimento del pubblico di fronte all'esplosione dell'aggressività, della follia, della brutalità sullo schermo, sul piacere e l'eccitazione nello spettacolo del terrore. E in questo la pellicola di Michael Haneke conserva ancora tutta la sua attualità e l'intelligenza nel metterla in scena, un percorso glaciale che stuzzica chi guarda lo schermo, pilota le sue reazioni, e poi se ne fa improvvisamente beffa senza pietà, un dileggio che ha irritato molti ma che rivela quel coraggio e quella genialità che contraddistinguono fin dagli esordi la carriera del regista, in particolare dal suo capolavoro, l'incredibile Il settimo continente, una pellicola di una bellezza infinita sull'indifferenza e sull'autodistruzione come unica via di fuga, che andrebbe al più presto riscoperta.

La violenza in Funny Games resta sempre fuori campo e diventa perciò più agghiacciante, perché ciò che non può essere visto, ma è lasciato all'immaginazione dello spettatore, è ancor più potente ed efficace nell'esprimere crudeltà. L'idea della ferocia, del sadismo disumano mascherato da modi gentili e linguaggio raffinato amplifica a dismisura l'inquietudine e le torture che si susseguono nel fuori campo costruiscono in noi immagini e sensazioni che siamo perciò costretti a sopportare intimamente. Poi qualcosa va storto, si perde il controllo e la violenza trova improvvisamente esibizione anche sullo schermo, ma il cinema svela allora sé stesso, e con una soluzione traumatica spezza per sempre il legame tra film e pubblico. L'effetto è ancora destabilizzante, Haneke si conferma grande anche al bis.