Recensione Calvet (2011)

Dominic Allan ci racconta la storia di Jean Marc Calvet, oggi artista internazionale, attraverso la viva voce del protagonista, che ripercorre con intensità, rabbia ma anche commozione il proprio cammino di rinascita.

Un uomo e i suoi demoni

Ci sono momenti, nella vita, in cui pensi di aver toccato il fondo. In cui pensi di aver fatto tutto il possibile per diventare un bastardo, e di esserci riuscito alla perfezione. E in quei momenti, quando la consapevolezza delle tue colpe ti opprime, vorresti solo morire, ma sai che non puoi, perché sarebbe una scappatoia troppo facile, perché non te lo meriti. Quello che dovresti fare è continuare a soffrire, per espiare, almeno in parte, tutto il male che hai fatto, tutti gli errori che hai commesso, che sapevi di stare commettendo e che non hai fatto niente per non commettere. E' così che Jean Marc Calvet ci introduce alla sua storia, senza dimenticare però una postilla importante: anche quando tutto sembra perduto, e senti che non ti potrai mai risollevare dalla miseria in cui sei piombato, non ci credere, perché non è detto che sia così. Per lui, infatti, non lo è stato.

Dominic Allan inizia il racconto travagliato della vita dell'artista non dall'inizio, ma da quello che fu il più drammatico punto di svolta della sua esistenza: il trasferimento negli Stati Uniti, a proteggere quello che non sapeva essere un boss della malavita, che, schiavizzandolo e umiliandolo, distrusse in lui ogni parvenza di sogno americano. Un sogno americano che aveva inseguito rinunciando alla moglie e al figlio, abbandonati in un paesino del sud della Francia nel tempo di una notte. Ma non è soltanto per la brama di un ricco stipendio o per soddisfazione professionale, che Calvet si allontanerà dalla tranquillità faticosamente conquistata: è piuttosto perché dell'affetto, dell'amore, della comprensione aveva deciso già tanti anni prima di non aver bisogno. Bambino infelice, costretto ad assistere quotidianamente alle discussioni tra i genitori da una misera brandina ai piedi del loro letto, adolescente allo sbando, drogato e disposto a prostituirsi per potersi pagare una dose, e poi legionario, poliziotto tra i più cattivi perché ben conosceva la logica dei delinquenti, Jean Marc non può essere felice. Perché il muro che ha eretto intorno a sé è troppo difficile da abbattere, e lui nemmeno vuole abbatterlo: la felicità è qualcosa da cui fuggire, perché dà dipendenza, ti rende debole offrendoti qualcosa da perdere. E' dopo la fuga in Sudamerica che per Calvet inizia la discesa più ripida nel percorso di autodistruzione che lo accompagnava da tutta la vita, ma è proprio lì che inizia anche la sua redenzione.
Una redenzione tutt'altro che facile, arrivata al termine dell'ennesima, strenua battaglia tra la coscienza sdoppiata che lo ha sempre abitato: quella in cui la sua parte oscura, che gli ha negato il diritto a desiderare, si arrende finalmente al suo altro sé, quello che cerca disperatamente la pace, il calore di una famiglia, l'affetto che non ha mai avuto. Ed è qui che entra in scena la pittura: scoperti per caso dei barattoli di vernice nel corso del suo isolamento votato alla droga e all'alcol, in cui arriverà a pesare 47 chili, Calvet inizia a dipingere tutte le proprie angosce, a vomitare la propria rabbia, la propria frustrazione, il disgusto che prova verso se stesso sulle pareti di casa. E' l'inizio di un legame che non si interromperà mai più, perché la pittura per lui non è una forma d'arte, un modo per esprimere se stesso, quanto l'unica maniera per sopravvivere, per affrontare i propri fantasmi, per non affondare. A rendere ancora più dura e straziante la storia di Calvet, a cui Allan si approccia silenziosamente e con rispetto, assecondando il modo in cui il suo protagonista intende descriverla, è la sua ferma resistenza a farsi degli sconti: certo, ha avuto un'infanzia difficile, un'adolescenza da dimenticare, ma le sue colpe rimangono sue, e soltanto sue. E' lui che non ha avuto "le palle per fare il padre", che sa di non avere il diritto di chiedere scusa a quel figlio che, nell'ultima parte della pellicola, si impegna a ritrovare. Il suo non è il racconto pacato, calmo di chi ha raggiunto una nuova consapevolezza e guarda con serenità al proprio passato: il modo in cui rievoca i suoi momenti più bui, l'emotività con cui ripercorre le tappe della propria vita, la gestualità irrefrenabile in cui esplode ricostruendo la violenza di cui è stato il principale artefice ci danno la misura del continuo lavoro che Calvet deve fare su se stesso, della difficoltà con cui ogni giorno deve ancora affrontare i propri demoni interiori.

Allan è estremamente efficace nel testimoniare la complicata interiorità del suo protagonista, seguendone la fisicità rabbiosa, da animale appena uscito da una gabbia, così come i momenti di commozione, in cui si apre a impietose riflessioni su se stesso. Ma la disillusione non è, qui, sintomo di immobilismo, di rassegnazione: è solo con la consapevolezza di chi si è stati, di quanto male si è fatto, che si può onestamente intraprendere un cammino di redenzione. Ed è solo rimanendo alla larga dall'ipocrisia e dall'autoindulgenza che possiamo effettivamente credere, come Calvet, che un'altra occasione ce la possiamo dare, che qualcosa in grado di salvarci c'è, che sia l'arte, che sia l'amore, che sia il perdono: nostro, prima che degli altri.

Movieplayer.it

3.0/5