Recensione The Way Back (2010)

A un anno e mezzo di distanza, approda nelle sale l'ultimo film di Peter Weir: un'opera forte e coerente con la sua idea di cinema, che narra l'incredibile fuga di sette uomini da un gulag sovietico.

Un'odissea umana e universale

Siamo nel 1940, all'interno di un gulag sovietico. Janusz, soldato polacco, è stato appena rinchiuso nella struttura e condannato a 25 anni di lavori forzati, dopo essere stato denunciato da sua moglie, forse vittima di torture, con l'accusa di spionaggio. L'uomo non si capacita di come la donna che ama abbia potuto determinare la sua condanna, ma la realtà che trova nel campo di prigionia è ancora più sconvolgente: torture, condizioni di vita bestiali, violenze e soprusi tra gli stessi detenuti sono la norma. Mentre un inverno rigidissimo gela la natura tutto intorno al campo, Janusz fa la conoscenza di un eterogeneo gruppo di persone: tra questi, l'ex attore dissidente Khabarov, l'ingegnere americano Smith, emigrato con la sua famiglia in fuga dalla Depressione, il cinico criminale Valka, il cuoco artista Tomasz, il compatriota Kazic, il prete lettone Voss e lo jugoslavo Zoran. Spinto da Khabarov, che tuttavia alla fine non avrà il coraggio di mettere in atto il piano, Janusz inizia a progettare una fuga apparentemente folle: un progetto che prevede l'attraversamento del vicino lago Baikal e una estenuante marcia verso sud fino al confine con la Mongolia, per migliaia di chilometri. Durante una tormenta di neve, Janusz vede l'occasione per mettere in atto il suo proposito: protetti dalla bufera, i sette prigionieri riescono ad eludere le guardie armate e a fuoriuscire dalla struttura, ma per loro questo sarà solo l'inizio di un'incredibile odissea, di cui prevedibilmente non tutti vedranno la fine.


E' un destino difficile da comprendere, quello di The Way Back, ultima attesa pellicola di Peter Weir (il precedente Master and Commander: Sfida ai confini del mare risale al 2003): girato nel 2010, uscito in gran parte delle sale mondiali all'inizio dell'anno successivo, ma tenuto nel cassetto dalla distribuzione italiana fino a questa torrida estate 2012. Forse le logiche (imperscrutabili) che portano una pellicola come quella di Weir a rischiare di restare invisibile nel nostro paese non dovrebbero più sorprenderci: fatto sta, comunque, che questa pellicola non solo ha il passo e il respiro del cinema classico, non solo è diretta da uno dei maestri della cinematografia degli ultimi decenni, ma ha anche un cast di notevole richiamo per il grande pubblico: al protagonista Jim Sturgess si affiancano un gigante come Ed Harris, un Colin Farrell sempre più lanciato (e bravo) e un'emergente di talento come la giovane Saoirse Ronan. Volti e nomi noti, quindi, per una pellicola che rilancia l'idea di cinema, di intrattenimento e sostanza insieme, del suo autore; traendo spunto da un libro in parte autobiografico (sembra che la fuga descritta dal film, in realtà, non sia stata vissuta in prima persona dal suo narratore) scritto dall'ex soldato polacco Slavomir Rawicz.

C'è di nuovo la natura in primo piano, nel nuovo film di Weir, un macrocosmo duro da affrontare e retto dai suoi immutabili cicli, insieme fonte di dolore e salvezza per i sette uomini che si immergono nel suo abbraccio: se in pellicole come Picnic ad Hanging Rock, tuttavia, questa era un fascinoso simbolo di minacce oscure e indecifrabili, qui la sua azione è più scoperta, e la sua filosofia più neutra: Janusz e i suoi compagni devono semplicemente adeguarsi ad essa, accettando di misurare le proprie forze fisiche sul puro confronto con le sue regole. In questo compito, che pone anche a confronto l'insensatezza e la reale bestialità delle regole umane con la razionalità spontanea e semplice (per quanto spesso brutale) di quelle naturali, i protagonisti dovranno compiere anche un percorso di avvicinamento reciproco: dall'indifferenza, e dalla semplice logica utilitaristica che li aveva portati in un primo momento ad unirsi nella fuga, alla progressiva scoperta dell'altro e infine all'empatia di fronte alle terribili prove fisiche che di volta in volta dovranno attraversare. E' esplicita, in questo senso, la sequenza in cui la giovane Irena interpretata da Saoirse Ronan parla a turno con i membri del gruppo, fungendo da veicolo indiretto per le informazioni sulla vita di ciascuno di essi: l'incomunicabilità iniziale è spezzata da questa giovane figura femminile, vagamente messianica, il cui approdo inizierà a scalfire anche la dura scorza di cinismo di personaggi come Smith e Valka.
Mentre le prove fisiche e psicologiche che i fuggitivi devono affrontare si fanno sempre più pesanti, mentre i loro corpi, esposti alla furia degli elementi, vengono sottoposti al martirio di fame, privazioni e spossatezza, il loro viaggio si colora di epicità e la loro odissea assume il tono e l'incedere di un dramma universale. Gelati dalla neve della steppa siberiana prima, e bruciati dal sole di un deserto sterminato poi, i loro volti (ri)acquistano l'umanità che il campo di prigionia aveva tentato di toglier loro: le scenografie naturali, con la loro maestosità, si fanno testimoni e insieme co-protagoniste di una storia umana che celebra la volontà e il coraggio, spogliati di qualsiasi orpello. Così, poco importa se The Way Back, nella sua prima parte, fatichi un po' a coinvolgere lo spettatore con un ritmo inizialmente quasi timido, e poco importa se la sceneggiatura paghi qualcosa, specie in termini di definizione dei personaggi, alla struttura corale del racconto. La visione cinematografica di Weir e il suo sguardo su questi protagonisti "minori" della storia catturano, emozionano e infine commuovono. Da vedere rigorosamente in sala e in pellicola, se possibile.

Movieplayer.it

4.0/5