Recensione Headhunters (2011)

Headhunters trascina lo spettatore in una cavalcata mozzafiato costellata da sequenze pervase da una gustosa ironia e da violenza pulp d'impronta tarantiniana.

Un ladro all'altezza della situazione

I venti del thriller soffiano da nord. A far da apripista ci ha pensato Stieg Larsson, morto troppo presto per poter godere dei frutti della Millennium Trilogy. I suoi romanzi, che hanno fatto impazzire mezzo mondo grazie alla presenza di un'eroina post punk ruvida e disarmante come Lisbeth Salander e a un'ambientazione fino ad allora sottoutilizzata, hanno dato origine a tre pellicole di fattura modesta, culminate in seguito nel più convincente remake di David Fincher. Nel frattempo il piccolo schermo saccheggiava l'opera del conterraneo Henning Mankell per realizzare due serie, la prima scandinava, la seconda inglese, ispirate alle gesta del Commissario Wallander. Proseguendo verso nord si incrocia il cammino di Jo Nesbø, cantore ante litteram - i suoi primi romanzi risalgono a un'epoca in cui l'innocenza di Oslo non era stata ancora violata dalla tragedia di Utoya - del lato oscuro della gelida capitale norvegese, descritta come una Gotham City ricoperta di ghiaccio. Proprio da uno dei romanzi di Nesbø, ancora inedito in Italia, il regista Morten Tyldum ha tratto l'irriverente Headhunters, thriller mozzafiato che utilizza al meglio le regole del genere infondendovi l'irresistibile black humor scandinavo.

Il principale punto di forza di Headhunters sta nella sua autoironia, nella capacità di non prendersi troppo sul serio. Il peso del film grava, infatti, sulle spalle di un protagonista fedifrago, con il complesso dell'altezza e un tantino logorroico. Roger è un brillante cacciatore di teste con una moglie bellissima - e altissima - di nome Diana. Per essere "all'altezza" della consorte e garantirle il tenore di vita necessario a evitare di essere mollato su due piedi, l'uomo svolge una seconda occupazione: il ladro di opere d'arte. La notizia di un raro Reubens custodito nella villa di famiglia di un manager olandese gli fa drizzare le antenne spingendolo a organizzare un nuovo colpo, ma presto Roger si rende conto di essere caduto in una trappola mortale. Il manager in questione è, in realtà, un ex militare che scatena una caccia all'uomo senza precedenti costringendolo a una rocambolesca fuga.
Headhunters trascina lo spettatore in una cavalcata mozzafiato costellata da sequenze pervase da una gustosa ironia (una per tutte la scena dell'arresto del protagonista da parte di due poliziotti sovrappeso) e da violenza pulp d'impronta tarantiniana. Forte di una sceneggiatura a orologeria il cui puzzle va a comporsi perfettamente, tassello dopo tassello, con l'avanzare della storia, Morten Tyldum può permettersi quei virtuosismi registici che arricchiscono la confezione del suo thriller valorizzando interpreti e location. Se vogliamo scomodare un paragone nobile, Aksel Hennie non avrà il fascino né il candore di Cary Grant nel cult hitcockiano Intrigo internazionale - anche se la star de Il trono di spade Nikolaj Coster-Waldau, qui nel ruolo del villain freddo e spietato, potrebbe dargli del filo da torcere - ma la sua iniziale antipatia viene mitigata dall'arguzia dello script e dalle grottesche disavventure che lo vedono protagonista. Rubare un quadro può essere il modo più rapido per pagare l'esorbitante rata del mutuo di un'asettica villa in perfetto stile Ikea, ma nell'impeccabile Norvegia anche i fedifraghi e gli arrivisti hanno un cuore e sanno apprendere la lezione impartita. O no?

Movieplayer.it

4.0/5