Recensione L'erede (2010)

L'esordio di Michael Zampino, già apprezzato regista di cortometraggi, muove da una struttura narrativa estremamente semplice per dipanarsi in una sorta di horror in cui manca l'elemento sovrannaturale, e in cui la follia ha motivazioni terrene ma non è per questo meno spaventosa.

Un conto impossibile da pagare

Bruno, giovane medico milanese, ha ereditato dal defunto padre una proprietà di cui ignorava l'esistenza: una grande villa di inizio '900, immersa nella natura selvaggia degli Appennini, apparentemente disabitata da decenni. Il giovane, nonostante le insistenze della compagna Francesca che vorrebbe si liberasse subito della proprietà, decide di ristrutturare la tenuta prima di venderla; per far questo, si reca sul posto, e viene presto avvolto dalla particolare atmosfera del luogo, iniziando inoltre a scoprire particolari ignoti della vita di suo padre. Questi ruotano soprattutto intorno alla figura di Paola, enigmatica e instabile custode della villa che vive nella residenza adiacente, e ai suoi due figli, il rozzo e taciturno Giovanni e la conturbante Angela; questa famiglia, che Bruno scopre presto legata a doppio filo alla sua, trascinerà il giovane medico in un vortice di inquietudine prima, e di vera e propria violenza poi, con la richiesta di pagare un conto di cui Bruno non sospettava nemmeno l'esistenza.

E' sempre un piacere, e un tentativo da incoraggiare, quando qualcuno in Italia tenta di proporre pellicole appartenenti a generi da decenni in disuso come il thriller, vista l'ormai endemica asfissia di questo tipo di proposte nel nostro paese; meglio ancora se a tentare la sorte, come in questo caso, è un regista esordiente come l'italo-francese Michael Zampino, e se i risultati sono complessivamente convincenti come quelli di questo L'erede. L'esordio di Zampino, già apprezzato regista di cortometraggi, muove da una struttura narrativa estremamente semplice, che rifugge dalle regole non scritte del genere (che vorrebbero uno svelamento graduale dei retroscena della vicenda) e lascia alla prima mezz'ora il compito di chiarificare allo spettatore il background e le motivazioni dei personaggi, compresi quelli negativi. La sceneggiatura, scritta dal regista insieme allo specialista Ugo Chiti, fa uso di un unico flashback a inizio film, muovendosi poi in modo lineare nel presente, e concentrando la tensione sulla vera e propria morsa che la famiglia contadina stringe intorno all'inerme protagonista. Una premessa semplice, quindi (e ben chiarificata dallo slogan di lancio del film) che diventa motivo per il dipanarsi di una sorta di horror in cui manca l'elemento sovrannaturale, e in cui la follia ha motivazioni terrene ma non è per questo meno spaventosa.
La regia di Zampino si nutre di suggestioni da horror rurale che rimandano a classici del nostro cinema come La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati, ma soprattutto fa del paesaggio, arioso e opprimente al tempo stesso, un ulteriore personaggio della vicenda; a questo fanno da contrappunto gli elaborati interni della vecchia magione, cadenti e claustrofobici, teatro di inquietudini passate che non vediamo ma riusciamo a intuire, dimora di fantasmi che si agitano appena sotto la superficie della realtà. In tutto questo, il regista dimostra una buona sapienza nella gestione degli spazi scenici e della suspence, riesce a caricare di inquietudine anche l'apparizione di un coniglio, e a trasfigurare in quello di una vera e propria strega il volto di una bravissima Guia Jelo, vera e propria mattatrice della pellicola. L'ottima, cupa fotografia, unita a un azzeccato commento sonoro (di grande impatto quello diegetico che troviamo nel finale, quando i protagonisti ascoltano una classica composizione cubana) mostrano la notevole cura estetica del film, che non fa pesare il basso budget, appena rimpolpato dai (per una volta meritati) finanziamenti ministeriali e di varie istituzioni locali.
Si può in questo senso perdonare allo script un qualche schematismo di troppo nella definizione dei personaggi, figlio diretto della scelta di concentrare tutta la tensione narrativa sul presente, e qualche dialogo non sempre all'altezza (viene in mente il personaggio, a tratti troppo sopra le righe, del rozzo Giovanni interpretato da Davide Lorino). Lo stesso Alessandro Roja, proveniente direttamente dal fenomeno televisivo Romanzo Criminale - La serie, si destreggia più che bene in un ruolo che prevede un'evoluzione e una trasformazione nell'attitudine, che il giovane attore rende efficacemente sullo schermo.
La chiusa de L'erede, secco e diretto anche nella durata (solo 85 minuti) non offre alcuna consolazione, quasi a sottolineare che quel conto, da cui tutta la vicenda trae la sua origine, non potrà mai essere saldato. L'unica soluzione è, evidentemente, convivere con la consapevolezza della sua esistenza. Tenendo presente, sempre, che anche questa scelta ha un prezzo.

Movieplayer.it

3.0/5