Recensione The Ring 2 (2005)

Dirigendo il sequel del 'The Ring' americano, Nakata prova a mediare tra la sua visione autoriale dell'horror e le esigenze dell'industria della paura hollywoodiana: pur non mancando i buoni momenti, il risultato delude, principalmente a causa di una sceneggiatura confusa e incerta sulla strada da prendere.

Un buco (circolare) nell'acqua

Sono sostanzialmente tre le considerazioni che vengono da fare dopo la visione di questo The Ring 2, atteso sequel che lo stesso Hideo Nakata ha voluto dirigere proseguendo la storia di quel The Ring con cui Gore Verbinski aveva "riadattato" per il pubblico statunitense il suo cult Ringu. La prima è che, dopo aver assistito ai numerosi tentativi cinematografici di "espandere" la storia di Sadako/Samara (si ricordi il Ringu 2 diretto dallo stesso Nakata, il prequel Ringu 0, ma anche quello Spiral che rappresentava l'adattamento cinematografico del sequel cartaceo del romanzo di Koji Suzuki), la storia della videocassetta maledetta e dell'inquieto spirito che l'ha generata sarebbe dovuta rimanere, almeno cinematograficamente parlando, capitolo unico.
Certo, il remake di Verbinski aveva dato una lettura personale, tipicamente "americana" della vicenda creata da Suzuki e portata sullo schermo da Nakata: un'operazione concettualmente discutibile, ma, a parere di chi scrive, artisticamente riuscita. Ma la grande forza di quella vicenda, in entrambe le versioni, stava proprio nel terrore semplice, atavico, irrazionale provocato da una storia di fantasmi in cui quello che accadeva non veniva spiegato, ma semplicemente esposto, presentato come un dato di fatto: nelle migliori storie dell'orrore, non c'è bisogno di dare una giustificazione al fatto che le cose accadano. Accadono e basta, e questo, in qualche modo, le rende ancora più agghiaccianti, perché non "filtrabili", nemmeno in minima parte, dalla razionalità.

L'aver voluto dare una prosecuzione (o, peggio, costruire un background) a una vicenda semplice, che aveva già, in sé, tutti gli ingredienti per spaventare, ha indubbiamente tolto ad essa molto del suo potenziale orrorifico: questo è valso, in misura differente, per tutti i sequel e i prequel finora prodotti, e vale, a maggior ragione, per questo secondo capitolo americano. La seconda considerazione, più pertinente al film, ma soprattutto a un regista che abbiamo (avevamo?) imparato ad amare, è che Nakata, nel suo esordio hollywoodiano, abbia tentato di "mediare" il suo universo autoriale, le sue "cifre" stilistiche ormai ben riconoscibili (un forte simbolismo, un'estetizzazione dell'orrore sempre presente, una componente melodrammatica che è ormai parte integrante del suo impianto narrativo), con le esigenze dell'industria dell'orrore hollywoodiana, che ha ormai "fagocitato" la new wave nipponica riproponendone solo le idee di base, ma snaturandone la sostanza. Un tentativo coraggioso, ma purtroppo non riuscito: il film risulta squilibrato, e non riuscirà, con tutta probabilità, a soddisfare né gli amanti del pop-corn horror statunitense, né i cultori delle più recenti ghost story orientali. Ma di questo parleremo approfonditamente più avanti.
La terza considerazione, anch'essa strettamente pertinente al film e a uno dei suoi creatori, è che lo sceneggiatore Ehren Kruger, trovatosi stavolta a lavorare su un soggetto (quasi) completamente originale, abbia mostrato qui tutti i suoi limiti a livello di scrittura cinematografica, costruendo una sceneggiatura che non sta in piedi, ricca di buchi, di elementi buttati lì e poi tralasciati, e di spunti mal sviluppati.

Il film inizia con una lunga carrellata sull'acqua marina che lambisce la cittadina in cui la protagonista Rachel e suo figlio si sono rifugiati dopo gli eventi del primo film: un riferimento esplicito all'inizio di Ringu, ma anche una sorta di "dichiarazione di intenti" per Nakata, che fa proprio dell'acqua uno degli elementi fondamentali, se non l'unico fondamentale, di tutto il suo film. Simbolo di purezza per la cultura giapponese, rovesciato qui nell'emblema della morte e dell'abbandono, destino subito da Samara quando fu gettata nel pozzo maledetto, ma anche elemento che scopriamo aver "toccato" la vita dell'inquietante protagonista in un passato ancora più remoto: l'acqua diviene così una presenza costante nelle apparizioni dell'inquieto spirito, presagio di morte ancor più di quella televisione che era il "mezzo" usato da Samara per interagire con il mondo dei vivi nel primo film. E' impossibile, per chi conosce il cinema del regista, non vedere in tutto ciò un riferimento esplicito, diremmo persino dichiarato, al suo film più bello, quel Dark Water in cui la poetica melò-horror di Nakata si era per la prima volta espressa in modo compiuto. E, nonostante sulla carta siamo di fronte al seguito del The Ring americano, il film sembra essere proprio un remake non dichiarato di Dark Water (che precede quello "ufficiale" che saremo costretti a vedere fra non molto), con uno spunto di partenza molto simile, e sviluppi per buona parte analoghi. Una sorta di remake che però, è bene dirlo, non raggiunge neanche lontanamente la forza espressiva e concettuale, il singolare e perfetto bilanciamento tra lacrime e paura, coinvolgimento emotivo e inquietudine, che aveva caratterizzato quello che è, a parere di chi scrive, uno dei più begli horror degli ultimi decenni.

La "mediazione" tentata dal regista, di cui dicevamo in apertura, non funziona: il film alterna momenti riusciti e inquietanti (affidati soprattutto alla recitazione del giovane David Dorfman che qui ha almeno la possibilità di caratterizzare il suo personaggio) ad altri in cui a prevalere è l'effetto-shock gratuito, slegato dalle necessità narrative (si veda a questo proposito la prima apparizione di Samara, degna del più vieto sequel della serie Nightmare). L'eleganza formale del film (che si avvale di un'ottima fotografia virata a toni "freddi" di blu e verde, scelti per adattare l'estetica del film al suo tema e aumentarne l'inquietudine) e la profusione di simbologie da parte del regista (oltre all'acqua è da ricordare la presenza dei cervi, animali sacri per la cultura giapponese e qui "indicatori" della presenza del Male) non riescono a sopperire a una sceneggiatura inconcludente, confusa, che sembra indecisa sulla direzione da prendere, che vuole spiegare ma non ci riesce, accumulando elementi che sembrano dover trovare una precisa collocazione all'interno della storia ma poi vengono ingiustificatamente tralasciati. Un punto a favore del film è sicuramente l'aver dato un maggior risalto al personaggio del piccolo Aidan (uno sbiadito clone del protagonista de Il sesto senso nel film precedente), dando la possibilità, come si diceva, al suo interprete di esprimersi al meglio: per (ri)costruire la sua idea di melodramma horror, Nakata si è concentrato proprio sul rapporto tra Rachel e suo figlio, e sul progressivo allontanamento di quest'ultimo, parallelo al nuovo irrompere dell'orrore nella vita dei due. Una costruzione che purtroppo (nonostante la nuova prova positiva della stessa Naomi Watts), resta "ingabbiata" nei limiti di uno script che doveva essere maggiormente curato.

I giustificati timori derivati da questo esordio hollywoodiano, per un autore che comunque non ha ancora smarrito (o svenduto del tutto) la sua idea di cinema, crescono esponenzialmente se si dà uno sguardo ai suoi progetti futuri, che sembrano portarlo in una direzione sempre più lontana da quella che, coerentemente e allo stesso tempo con una continua opera di ricerca, aveva intrapreso prima della trasferta statunitense: oltre a un probabile terzo episodio della saga di The Ring (che Nakata si è dichiarato disposto a dirigere senza avanzare la minima riserva), è stata già annunciata la sua regia di ben tre remake: quello di The Eye (progetto di cui non vediamo francamente l'ultilità), quello di Entity di Sidney J. Furie, e un thriller intitolato Out, a sua volta rifacimento di un film nipponico con lo stesso titolo, ispirato a un romanzo intitolato Le quattro casalinghe di Tokyo scritto da Natsuo Kirino. L'inizio della fine, quindi, l'ennesimo talento "corrotto" dall'industria hollywoodiana? E' indubbiamente presto per dirlo, nonostante i non incoraggianti segnali. Nel frattempo, non rinunciando alla speranza, non ci resta che riguardarci Dark Water, o, per i più fortunati, il misconosciuto Last Scene, melò "puro" ugualmente intenso e degno di attenzione.

Movieplayer.it

2.0/5