Recensione I guardiani del destino (2011)

Più che rileggere in maniera personale il racconto scritto nel 1954 da Philip K. Dick, George Nolfi ne allunga a dismisura la trama e la stravolge imbottendola di un romanticismo stonato; il focus non è più concentrato sul protagonista e sui suoi dilemmi, ma sulla relazione sentimentale tra i due personaggi principali.

Tu sei il mio destino

Gli uomini col cappello controllano le nostre vite. Scegliere una strada piuttosto che un'altra, rispondere o no ad una telefonata, prendere il bus al volo o perderlo per una manciata di secondi. Non sono decisioni che prendiamo, ma parti di uno schema più ampio che i guardiani del destino, un'associazione che ha come unico scopo quello di preservare l'umanità dalle catastrofi, guidando le vite degli esseri umani come si fa con i burattini per impedire ad ogni uomo e ad ogni donna di sbagliare, hanno preordinato in ogni più piccola sfumatura. Se cambia qualcosa, l'intero castello di carte crolla con conseguenze imprevedibili e per questo spaventose. Se ne accorge ben presto David Norris (Matt Damon), brillante e giovane politico, candidato al Senato degli Stati Uniti con la speranza, un giorno, di poter diventare un presidente illuminato come John Fitzgerald Kennedy. Bloccato nella sua ascesa da un banale scandalo, vede sempre più lontana la possibilità di arrivare a Washington.


Quattro chiacchiere con la bella Elise Sellas (Emily Blunt), conosciuta per caso durante la giornata del suo tracollo elettorale e un bacio appassionato con lei gli bastano per ritrovare la forza di andare avanti e per non abbandonare il suo sogno. Se tutto fosse rimasto così, I guardiani del destino avrebbero compiuto brillantemente la loro missione. L'incontro con la giovane danzatrice è solo una mossa costruita a tavolino per spingere l'uomo a tornare in pista e proseguire nel suo cammino verso la Casa Bianca; David, invece, ignaro di tutto e innamorato come un adolescente, continua a cercarla e soprattutto continua a trovarla. Una circostanza, questa. inaccettabile per i guardiani del destino, impegnati a bloccare la relazione nascente con ogni mezzo, dal classico sgambetto in corsa, a più sofisticate riformattazioni cerebrali. L'obiettivo diventa primario quando David, arrivato in ufficio prima di quanto stabilito dallo schema della sua vita, scopre l'esistenza della famigerata squadra riparazioni. Nei duri e continui faccia a faccia con questi strani 'impiegati' David comprende che il suo amore per Elise mette in pericolo il piano costruito per lui (diventare uno dei più saggi presidenti degli Stati Uniti), ma nonostante ciò è disposto a rischiare tutto per stare per sempre con la donna prediletta. Inizia quindi una fuga per difendere se stesso e la sua amata dall'ingerenza degli uomini grigi.

Innamorato o per meglio dire ossessionato dal racconto di Philip K. Dick, The Adjustment Team (Squadra riparazioni in italiano), lo sceneggiatore George Nolfi (suoi gli script di The Bourne Ultimatum e Ocean's Twelve) si imbarca otto anni fa in un'impresa temeraria e con la faccia tosta dei coraggiosi (o di chi è inconsapevole del grosso lavoro che lo aspetta) si presenta dalla figlia dello scrittore, Isa, per comprare di tasca sua l'opzione per l'adattamento cinematografico della novella. Risultato? Alla scadenza dell'opzione Isa Dick rinnova l'accordo ad una cifra modica e Nolfi può iniziare a progettare il suo debutto dietro alla macchina da presa. Grazie ad un budget sostanzioso, circa 60 milioni di dollari, il regista raggruppa un cast di primo livello in cui figurano Matt Damon ed Emily Blunt nei panni di David ed Elise, John Slattery (il Roger Sterling di Mad Men) e Terence Stamp che interpreta l'inquietante Thompson (senza contare le comparsate di vere stelle della politica come Madeleine Albright e il Reverendo Jesse Jackson).
Insomma c'erano tutte le premesse per ottenere un film godibile, che raffigurasse la profondità del racconto di Philip K. Dick, un apologo pessimista sulla relazione tra volontà del singolo e pianificazione del destino. Il risultato è un'opera che non riesce a restituire le cupe atmosfere dickiane, quel profondo senso di smarrimento dei suoi personaggi davanti ad un universo misterioso e incomprensibile. Più che rileggere in maniera personale la storia scritta nel 1954, Nolfi ne allunga a dismisura la trama e la stravolge imbottendola di un romanticismo stonato; il focus non è più concentrato sul protagonista e sui suoi dilemmi, ma sulla relazione sentimentale tra i due personaggi principali, rapporto che nella storia originale non ha un peso così rilevante. Nolfi spreca così un potenziale narrativo dirompente, trasformando il testo di Dick in un accattivante plot più abbordabile per il grande pubblico, ma forse un po' insipido. A salvare I guadiani del destino c'è il brio dei dialoghi e l'ironia di certe situazioni, come quando gli 'aggiustatori' vengono ripresi in tutta la loro robotica efficienza mentre fanno il lavaggio del cervello ad un collega di David. Di grande effetto anche i cronometrici incastri spazio-temporali che portano i protagonisti a spostarsi da un capo all'altro della città, entrando ed uscendo dalle porte.
Nonostante la freneticità dell'azione però, la messa in scena dell'esordiente regista è oltre modo rassicurante, tanto da stemperare la drammaticità di una storia che avrebbe dovuto volare un po' più alto per approfondire con maggiore costrutto il tema del libero arbitrio, asse portante attorno cui ruota il racconto. Impedire all'uomo di sbagliare o lasciarlo libero di fare, qualunque siano le conseguenze dei suoi gesti è una domanda che avrebbe meritato una risposta più centrata da parte di Nolfi. Il film invece si concentra sull'ostinazione di Norris a voler imporre la sua volontà ad un destino preordinato; la parabola sull'impossibilità di cambiare gli snodi della vita si trasforma nella corsa sfrenata per le strade di New York di un novello Romeo che tenta si salvare la sua Giulietta. Forse è il modo migliore per conquistare quella fetta di pubblico che mal digerisce certe divagazioni fantascientifiche, ma anche lo spettatore meno propenso a farsi affascinare dalle tematiche dickiane non potrà fare a meno di notare certe banalizzazioni. Soprattutto nel finale quando il pathos della storia si scioglie in un happy end romantico che nulla ha a che vedere con l'amaro epilogo disegnato da Dick.

Movieplayer.it

2.0/5