Recensione Troy (2004)

Nonostante il naturale tradimento del testo, se Troy può vantare un certo valore questo va ricercato nei versi scritti da Omero quasi tremila anni fa. Le sue riflessioni sull'ambivalenza della guerra, sulla tragicità della storia umana, sulla passione e sulla memoria, resistono all'annacquamento imposto dalla produzione.

Tremila anni e non sentirli

Finalmente ad Hollywood ce l'hanno fatta! Il più epico dei film epici, il peplum sulla mitologia greca è stato realizzato e con tutti i crismi del genere: scenografie maestose, pomposità interpretative, musiche ridondanti, magie effettistiche, eros e thanatos, soldi a palate, star muscolose, spettacolarizzazione estrema e autocelebrazione dei progressi compiuti dalla macchina cinema.

Stranamente poco saccheggiata fino ad adesso, almeno deliberatamente, la mitologia greca, enorme e sotterranea fonte di ispirazione per la maestosità dei film in costume, ha avuto l'onore o l'oltraggio (a seconda delle due diverse "ideologie" di interpretazione critica del genere) di passare per le mani delle produzioni hollyoodiane sin dal 1955, quando Robert Wise girò il farsesco Elena di Troia. Da allora molte variazioni tratte dall'Odissea (pensiamo anche ai Coen di Fratello, dove sei?), ma mai niente di così esplicitamente ispirato agli scritti greci.

La storia è nota ma banalizziamola: da una parte abbiamo il dispotico Agamennone, Re di un vasto impero, ossessionato dalla gloria almeno quanto l'invincibile free-lance della guerra Achille che lo odia a morte, il Re di Sparta Menelao a cui è stata sottratta la moglie e l'onore e il diplomatico Ulisse da una parte. Dall'altra troviamo i troiani del gran Re Priamo (il mitico Peter O'Toole), guidati dal principe Ettore e da Paride, amante di Elena. Al centro ovviamente c'è l'amore, il sentimento che maggiormente permette agli essere umani di comprendere i propri insormontabili limiti (vedasi Achille al cospetto di Briseide).

Su tutto questo troneggia Omero, unico vero vincitore, al termine di questo kolossal dagli imponenti mezzi e dispendi produttivi. E' lui l'immortale evocato ad inizio film da una voce-off alquanto fuori luogo.Le sue riflessioni sull'ambivalenza della guerra, sulla tragicità della storia umana, sulla passione e sulla memoria, resistono all'annacquamento imposto dalla produzione. Spogliato quasi di tutto, perfino della presenza dei suoi versi oltre che di quella degli dei, il poema di Omero riesce lo stesso a fornire al film alcune possibilità di non cadere nel ridicolo. Ma la tentazione pare spesso irreversibile.

Lo sceneggiatore David Benioff (autore del romanzo e della sceneggiatura di La 25a ora, qui soffo effetto di qualche droga spersonalizzante) si muove in punta di piedi tra le ricche e funeree pagine del poema, cercando di fornire un'adeguata portata tragica ai suoi personaggi per quanto ossessionato dall'esigenza di rendere il tutto appetibile al grosso pubblico, o meglio all'idea meanstream più radicata dello spettacolo cinematografico. A risentirne in particolar modo è la scrittura dei dialoghi che, in molti frangenti appaiono risibili e superficiali. Wolfgang Petersen dal canto suo non brilla di luce propria ma è anche vero che si trova abbastanza a suo agio con un cinema di dimensioni epiche e dirige senza né particolari sussulti o virtuosismi né sbavature. Sorprende poi che sia proprio la scena del combattimento tra Achille ed Ettore, prima del climax confusionario dell'ingresso a Troia a mostrare un regista perfino in grado di comunicare la carica mistica dei personaggi, affidandosi alle sole movenze e agli sguardi, senza abusare delle notevoli scenografie. Ma è davvero poca cosa. Ma basterà.