Recensione JCVD (2008)

A cavallo tra la fiction e il finto documentario, JCVD è un curioso esercizio di stile all'interno del quale recita Jean-Claude Van Damme in quanto attore, ma anche in quanto personaggio, offrendoci una spietata quanto gustosa autocritica.

Tra finzione e realtà

Pronti, via!
E ci si ritrova immediatamente al centro di un furioso combattimento, in un film che ricalca bene tutti gli stereotipi del caso. Guerra, scazzottate, azione a piene mani, ed in mezzo lui, l'eroe, il mito di una generazione di spettatori di b-movies: Jean-Claude Van Damme.
Ma c'è qualcosa che non va: il film sembra addirittura troppo finto, la mano del regista e del coreografo troppo calcata, i nemici muoiono come mosche con dei voli incredibili, gli scoppi e gli spari sembrano addirittura esageratamente tanti.
L'acronimo del titolo, JCVD, è subito svelato, e si chiarisce quando Van Damme esce da quello che si rivela un set nel set, per lamentarsi delle esagerazioni con un regista ragazzino, che, sornione, gli risponde "Che ti credi, di star girando Quarto Potere?".

Inizia così questo curioso esercizio di stile, a cavallo tra la fiction e il mockumentary, difficile da inquadrare e da giudicare univocamente. La storia è semplice, ma occorre che la si accenni per comprendere il senso della pellicola. Finito di girare il suo film, dunque, l'attore torna nella terra natia, il Belgio, per recarsi immediatamente in un ufficio postale al fine di prelevare i soldi degli alimenti da versare alla ex moglie e alla figlia. Una volta entrato, l'attore rimane coinvolto in una rapina, della quale non si riesce a capire se sia vittima od artefice.

La piega che prende il è dunque quella di un thriller poliziesco, fotografato alla stregua di un noir, nel quale tutto, almeno nella prima parte, parla d'altro.
Parla, come prima cosa, dell'uomo Van Damme, che, inaspettatamente, si mette a nudo più di quanto non sembri all'apparenza. Le crisi finanziarie, la turbolenta vita coniugale - quattro le mogli e cinque i matrimoni alle spalle - una carriera rinchiusa in quell'unico personaggio palestrato che salva il mondo dai cattivi. Tutto è ripreso e messo in gioco con un'ironia intelligente, che raramente scade nel grottesco. E nel farlo si citano simpaticamente mostri sacri quali Scorsese o John Woo, o un'inesistente competizione con Seagal per un ruolo nell'altrettanto inventato Mistery Purple.

Ma la sceneggiatura apre anche ad altre letture, forse più facili e scontate, ma altrettanto presenti. Si parla il ruolo della comunicazione e dell'immagine nella società moderna, che vive e si muove in funzione dell'informazione che assorbe passivamente. Van Damme è rinchiuso e imprigionato nel personaggio che lui stesso si è voluto creare, sfruttato in quanto status immaginario, che arriva a prevaricare l'uomo che ne vive al di sotto.
Una massmedizzazione che induce gli stessi poliziotti accorsi per risolvere la spinosa situazione, non a caso assisi in una videoteca quale quartier generale, a servirsi della televisione come mezzo di lettura e diagnosi della crisi in corso.

Peccato che , nella seconda parte, la sceneggiatura perda in freschezza, andandosi a rifugiare nella comodità del dramma e del noir a tutto tondo, smarrendo così un pò il senso e il motivo dell'inserimento, in un film che avrebbe anche potuto farne a meno, di Van Damme in quanto personaggio.
Un esperimento assai interessante, curioso, che concentra principalmente il suo successo nella volontà e nella capacità dell'attore belga di guardare se stesso e la sua vita, anche negli aspetti più complessi, con una sana dose di autoironia.
Perché, come gli viene detto un pò per scherzo, un pò sul serio, "Lei sembra molto più bello e più giovane sullo schermo".