The Forgiveness of Blood: a Berlino il dramma delle faide albanesi

Abbiamo incontrato stamattina, negli eleganti Partner Lounge del Berlinale Palast, il cast di The forgiveness of blood, ultimo film presentato in concorso a questa 61ma edizione della Berlinale, co-prodotto e distribuito da Fandango.

Faide familiari, vendette trasversali e scontri generazionali scatenati dalla persistenza di codici antichi, che in alzune zone dell'Albania regolano ancora la convivenza e la risoluzione delle 'questioni di famiglia'. Giustizie private che si muovono parallelamente alle vie governative, nonostante la legge e le forze di polizia tentino di fare il loro meglio per evitare che si mettano in pratica. Di questo si parla, ma soprattutto dello scontro tra le nuove generazioni e questi arcaismi ancora fortemente radicati, in The Forgiveness of Blood, il film low-budget che nasce da una co-produzione Usa/Albania/Danimarca/Italia ed è diretto dall'americano Joshua Marston, già regista dell'ottimo Maria Full of Grace, trionfatore al Sundance e al festival di Berlino come migliore opera prima nel 2004. E' la storia di Nik e Rudina, fratello e sorella adolescenti che vivono con i genitori e due fratelli più piccoli in una casa di campagna in Albania. Quando il padre, per risolvere una questione di principio nei confronti di un suo concittadino, si macchia del reato di omicidio, ne fanno le spese tutti ma in particolare Nik, che in qualità di figlio maschio maggiore dovrà rimanersene chiuso in casa fino alla risoluzione del caso. In assenza del capo famiglia, in fuga per le montagne circostanti, toccherà alla giovane Rudina prendere il posto del padre e lavorare per tirare avanti la baracca.

Una carriera che si preannunciava sfavillante quella di Marston, che dopo un esordio coi fiocchi ed un'esperienza televisiva con la regia di diversi episodi di Six Feet Under e Law & Order, si è invece arenata per diversi anni. Fino a quando non ha deciso di esplorare dapprima come studioso poi come cineasta un paese europeo per lui quasi totalmente sconosciuto. Poi l'incontro con il co-sceneggiatore Andamion Murataj (anche produttore associato) e con i produttori interessati al progetto che è subito decollato.
Presenti all'incontro il regista, gli attori Sindi Lacej (Rudina), Tristan Halilaj (il giovane Nik), Refet Abazi (il padre di Nik), lo sceneggiatore e produttore associato Andamion Murataj, il produttore newyorkese Paul Mezey per la Journeyman Pictures e il distributore italiano nonché produttore esecutivo Domenico Procacci in rappresentanza della Fandango Portobello, società di produzione composta dalla sua Fandango insieme alla britannica Portobello Pictures. Il film sarà nelle sale italiane dopo l'estate, ma un eventuale successo qui alla Berlinale potrebbe, secondo Procacci, anche anticipare i tempi.

Lo spettatore che si basa unicamente sul titolo potrebbe pensare ad una storia in cui alla fine il colpevole viene perdonato, ma non è esattamente così...

Joshua Marston: Il sangue in queste storie è spesso risolutivo, a volte qualcuno riesce anche a superare e a perdonare totalmente, mentre altre volte ci si concede un altro tipo di perdono, come avviene nel film. Ci sono decine di possibilità per uscire da queste situazioni scomode e tante sfumature diverse, come tra i personaggi di questa storia. Ho cercato in tutti i modi di non far sì che quello sembri il finale della storia, piuttosto un nuovo inizio per la generazione in questione.

Quindi il perdono del titolo lascia aperte diverse porte...
Joshua Marston: Qui non c'è solo il famoso 'codice' e tutte quelle piccole regole a corollario, nel film volevo semplicemente mostrare tutte le sfaccettature e le ripercussioni che un fatto del genere può portare in una famiglia numerosa. Non si tratta del perdono tra rivali ma anche quello tra padre e figli, quello della madre che si sobbarca tutto il peso in assenza del marito. Ci sono tanti punti di vista sulla questione raccontati in questo film.

Dal punto di vista dell'attore che interpreta il padre di famiglia coinvolto in un omicidio, come ha vissuto questa esperienza?

Refet Abazi: Il finale del film è davvero straordinario. Rimane aperto a mio avviso, avrei desiderato vedere una fine diversa ma la realtà in Albania è che raramente qualcuno viene perdonato in queste situazioni. Nello sguardo dei due ragazzi, alla fine, si legge il perdono, la speranza, la tristezza ma anche una sorta di impotenza. Ciò che mi ha affascinato del mio personaggio è stata la relazione difficile che ha con il figlio, che dopo il fatto di sangue si acuisce ancora di più fino allo scontro frontale tra i due. Le nuove generazioni, come è mostrato anche nel film, non capiscono cosa stia succedendo, non sanno cosa sia l'onore e non riescono a comprendere come gli adulti di oggi possano essere ancora così fortemente ancorati a codici e tradizioni così arcaici. Non particolarmente inclini al perdono.

Dal successo di Maria Full of Grace, uscito nel 2004, è ormai trascorso diverso tempo, perchè questa lunga pausa? Cos'è accaduto nel frattempo nel Usa?
Joshua Marston: Sono stati sei anni difficili in cui l'industria cinematografica ha dovuto fare i conti con la crisi di finanziamenti e il collasso totale dell'economia. Le prospettive erano davvero poche per me, non sapevamo cosa sarebbe potuto accadere il giorno dopo. Mi sono stati offerti progetti diversi, uno da venti milioni di dollari ma poi la compagnia in questione è fallita, poi è entrato in ballo l'adattamento di un libro per ragazzi, di cui poi si sono perse le tracce e poi ho deciso di venire in Europa. A mio avviso c'è un maggiore considerazione in Europa per i giovani registi, lo dimostra anche il fatto che i produttori che ho incontrato per parlare dell'idea che avevo in mente hanno dimostrato da subito un entusiasmo sorprendente.

Probabilmente in questa direzione ha spinto anche il fatto che quella che si racconta in The Forgiveness of Blood è una storia universale...

Joshua Marston: Sì, fondamentalmente il film narra proprio di questo, del conflitto generazionale, dello scontro tra 'vecchio' e nuovo, non è mai stato nelle mie intenzioni un film che parlasse di vendetta. Dopo un omicidio la vita di una tranquilla famiglia albanese viene stravolta completamentee costretta a convivere con un dramma veramente devastante. Così un ragazzo che gioca ai videogiochi nel tempo libero si ritrova prigioniero nella sua stessa casa, rinchiuso tra quattro mura per le colpe di suo padre e per colpa di un codice di giustizia privata scritto dai suoi avi. Un fardello passato di generazione in generazione che in molti ora in Albania cercano di eliminare per sempre.

Non è come si potrebbe pensare un film sulla vendetta, generazione all'altra, trapassato da padre in figlio, in molti cercano di far sparire questa situazione, un sacco di mediatori affinchè tutto finisca.
Tristan Halilaj: Si inzia da lì poi si parla di famiglia e di come la famiglia convive con queste tragedie. rispetto del lutto.

Quando è entrata nel progetto anche la Fandango a che punto della lavorazione il film era giunto?
Domenico Procacci: Quando è stato firmato l'accordo non c'era ancora il copione del film, Joshua aveva solo buttato giù su qualche foglio l'idea che avrebbe voluto sviluppare. Dopo esserci assunti l'impegno di co-finanziare il film io la mia collega Janine Gold della Portobello Pictures abbiamo visionato diverse stesure del copione e accompagnato Joshua nel suo viaggio in Albania dove ha cominciato a lavorare per identificare gli attori e i luoghi in cui avrebbe girato.

Secondo voi il film ha una sorta di 'american touch' ed una sensibilità maggiore nei confronti della tematica rispetto a quella che avrebbe avuto un regista albanese?
Tristan Halilaj: Non ho avuto mai esperienza con registi albanesi prima d'ora, sono al mio primo film e non ho un metro di confronto con altri. Quella che si vede nel film è l'Albania, lo stile di lavoro è prettamente americano ma i personaggi, la storia e le dinamiche che si dipanano sono strettamente albanesi, è quella la realtà che si vive nel nostro Paese. Joshua è stato veramente strepitoso, pensate che si era talmente immerso in questo progetto che quando io l'ho conosciuto parlava fluentemente la mia lingua.

Domenico Procacci: Quello che mi ha convinto a partecipare a questo film è stato proprio questa qualità di Joshua, non vedevo in lui quel distacco che di solito i cineasti stranieri hanno per le storie che raccontano, storie che appartengono a culture e a continenti diversi da quello di appartenenza. C'è purtroppo di solito la tendenza a scivolare sui clichè quando si parla di Albania, noi italiani lo sappiamo bene. Non volevo che la storia venisse filtrata attraverso gli occhi di qualcuno che non fosse capace di rimanere del tutto neutrale e puro.

Guardando il film viene in mente spesso il percorso che il popolo albanese spesso compie in patria, un percorso che spesso li spinge a fuggire via e a provare una strada diversa in Italia. C'era nel suo intento anche quello di raccontare la storia di quelli che fuggono da questa realtà fatta di faide e residui culturali così arcaici?
Joshua Marston: La gente crede di sapere tutto dell'Albania e degli albanesi ma non è così. E' una nazione complicata, questo è fuori di dubbio, spero vivamente che il pubblico italiano possa arrivare ad avere un po' più di simpatia e comprensione per queste persone dopo il mio film, anziché continuare a pensare che vengano tutti in Italia solo per lavorare o delinquere.

Ci ha spiegato che ad oggi non è più un fenomeno troppo diffuso questo del Kanun (il codice secondo cui vengono regolate le faide tra famiglie in caso di omicidio, ndr.), può spiegarci meglio?
Joshua Marston: Era assai più invasivo dieci anni fa, tanto che quando ho iniziato la produzione del film mi sono chiesto se fosse stato ugualmente attuale un film su un argomento in un certo senso in via di estinzione. A convincermi fu una conversazione con un uomo che da sempre cerca di evitare certe situazioni. Mi spiegò cosa accade in certe situazioni, semplicemente si deve prendere tutta la famiglia al completo e rinchiuderla dentro casa fino a quando non si riesce a capire quanto durerà la voglia di rivalsa della famiglia 'offesa'. Nonostante sia un fenomeno che sta scomparendo esso è ancora oggi impresso a fuoco nella mentalità del popolo albanese.

Durante il comunismo com'era la situazione?
Refet Abazi: Durante il comunismo non poteva esserci il problema delle faide perchè tutto era stato represso dal regime. C'era un'altra dittatura che imperversava nel paese e quando è decaduta tutta la frustrazione della gente è divenuta latente sfogando in queste vendette private.

Perchè l'Albania?

Joshua Marston: Ricordo che quando avevo vent'anni studiavo a Parigi e un giorno parlando con un mio compagno gli chiesi da dove venisse. Lui mi scrisse su un foglietto di carta Albania, dicendo queste parole "tanto è un paese che nessuno conosce". Era il 1989, l'albania era una terra chiusa all'esterno, impenetrabile. Oggi, vent'anni più tardi, mi accorgo che ha ancora qualcosa di misterioso per me, ho letto qualche quotidiano albanese poco tempo fa e mi sono accorto che quel che accade nel Paese in questo periodo è molto interessante. Devo essermi trascinato per tutti questi anni la voglia di scoprire di più su questo popolo e ad oggi posso dire di averlo fatto.

L'ultima scena, quella in cui Rudina saluta il fratello che sta partendo, e l'inquadratura si stringe in un primo piano favoloso e su un sorriso appena appena accennato. E' un messaggio che vuole significare che il futuro dell'Albania è nelle mani delle donne, che nelle situazioni più complicate riescono sempre a cavarsela e sembrano più forti, furbe e sagge degli uomini. E' una giusta lettura?
Sindi Lacei: In un certo senso sì, in situazioni come quella di Rudina le donne devono per forza agire, stare vicine agli uomini della famiglia e tirare avanti la famiglia per crescere i bambini. E' un'inclinazione comune a tutte le donne albanesi, loro amano mettersi a disposizione della famiglia e dei figli, in certe situazioni sanno anche mediare molto meglio di quanto non facciano gli uomini.