Recensione The Motel Life (2012)

Emile Hirsch ci ha abituato a perfomance di alto livello, ma l'interpretazione più sorprendente arriva dal biondo Stephen Dorff che mette a nudo le proprie fragilità regalando allo spettatore una figura debole e tormentata.

Amore fraterno

Dopo aver prodotto alcune pellicole di grande interesse come l'esplosivo remake de Il cattivo tenente firmato da Werner Herzog e il delicato Little Birds, i gemelli Polsky esordiscono nel lungometraggio con un lavoro che scuote il concorso della kermesse romana. The Motel Life è una storia cruda di dolore e disperazione ambientata nella fredda Reno (Nevada), città natale dell'autore del romanzo da cui il film è tratto, il cantante e compositore dei Richmond Fontaine Willy Vlautin. Al centro della storia vi sono due fratelli rimasti orfani in giovane età dopo che la loro madre si è spenta a seguito di una lunga malattia. La forza propulsiva di The Motel Life deriva dalla scelta dei due registi di avviare la narrazione in medias res inaugurando il film con l'evento scatenante che costringerà Frank e Jerry Lee Flanningan, i due giovani protagonisti, a intraprendere una fuga attraverso il Nevada. Questa decisione determina l'andamento di tutto il film connotandolo appparentemente con l'etichetta di spaccato sociale tipico della provincia americana, focus su coloro che vivono in condizioni di poco superiori alla mera sussistenza, integrati nel sistema, ma non fino in fondo perché su di loro pesa una sorta di 'peccato originale'. Peccato che, nel caso dei fratelli Flannigan, è l'essere orfani.

La scomparsa della madre, indirettamente, ha anche causato l'incidente in cui Jerry Lee (Stephen Dorff) ha perso una gamba, come ci viene mostrato in uno dei fulminei flashback posti strategicamente nei punti chiave del plot. I fratelli Polsky dimostrano di avere una salda gestione dello sviluppo narrativo della loro opera gestendo con abilità i salti nel passato che, oltre a essere utili per comprendere l'interiorità dei personaggi, sono girati con un'occhio di riguardo all'estetica, ma ciò che realmente distingue la loro pellicola dalla media delle opere indie che sono materiale privilegiato del Sundance è la scelta di alternare la mera rappresentazione dei fatti con una serie di inserti fumettistici. L'uso dei disegni viene motivato diegeticamente dalle passioni dei fratelli Flannigan: mentre Jerry Lee è un disegnatore dotato fin dall'adolescenza, il posato Frank (Emile Hirsch), utilizza le storie inventate su due piedi per tirar su di morale il fratello nei momenti più duri, infondendogli fiducia e rinsaldando il vincolo affettivo. Sono le storie un po' truci e un po' romantiche, ma sempre a lieto fine, partorite dalla mente di Frank a essere tradotte in quelle immagini bozzettistiche che sono i disegni di Jerry Lee. L'espediente del fumetto non è del tutto originale, visto che altre opere (ultimo il dolente Rabbit Hole di John Cameron Mitchell) ne avevano già fatto uso, ma mai come nel caso di The Motel Life la fantasia gioca un ruolo così fondamentale rappresentando il principale deterrente al vortice degli eventi drammatici e della malasorte che sembra accanirsi sui due fratelli.
Come sostiene Jerry Lee in uno dei momenti chiave del film "non c'è niente di male a unirsi tra anime incasinate". I fratelli Flannigan sono immersi in una comunità di amici e conoscenti solidali, ma altrettanto problematici. Dall'amico di Frank col vizio delle scommesse a quello appena uscito dal manicomio, passando per l'amante isterica di Jerry Lee, pochi si salvano nel mondo senza di luce di Reno. Anche l'unica figura 'salvifica', l'angelica Annie (Dakota Fanning), ha un lato oscuro che l'ha costretta a fuggire da Reno costruendosi una nuova esistenza altrove ed è questo lo stesso percorso che seguiranno Frank e Jerry Lee scorgendo in quella vita da motel che dà il titolo al film un miraggio di speranza e redenzione. Emile Hirsch ci ha abituato a perfomance di alto livello. Sul suo solido Frank, pronto ad annegare le proprie idiosicncrasie nell'alcool senza proferire parola pur di proteggere il fratello rovinato dalla vita, si regge gran parte della storia, ma l'interpretazione più sorprendente arriva dal biondo Stephen Dorff che mette a nudo le proprie fragilità regalando allo spettatore una figura debole e tormentata. Una prova notevolissima, la migliore della sua carriera, che lo vede mutato nel corpo e nell'aspetto, ma capace di integrare la menomazione fisica nella natura del suo personaggio invece di limitarsi a fornire una perfomance virtuosistica fine a se stessa. Hirsch e Dorff rappresentano la vera anima del film e i fratelli Polsky sono in grado di cucir loro addosso due personaggi di cui non ci dimenticheremo tanto facilmente. Né ci dimenticheremo del grande Kris Kristofferson, chiamato a interpretare un piccolo, ma intenso ruolo di padre putativo per Frank, o delle splendide musiche di David Holmes che ci accompagnano nel corso del film amplificandone il mood.

Movieplayer.it

4.0/5