Recensione Smetto quando voglio (2014)

Poco più che trentenne, Sydney Sibilia ha avuto l'intuizione di prendere le sue personali esperienze di lavoro unendole con la realtà sociale attuale non certo brillante e chiari riferimenti cinetelevisivi alla Breaking Bad.

La banda dei professori

Le parole hanno il loro valore, quindi bisogna saperle utilizzare con grande attenzione. Ad esempio, durante un colloquio per un lavoro mal pagato e decisamente al disotto della preparazione acquisita in anni di studio bisogna essere molto accorti nel non lasciarsi scappare espressioni forbite come "aspra diatriba legale". Per quale motivo? Semplice, un uso così sofisticato del linguaggio mette immediatamente allo scoperto un livello d'istruzione troppo alto e, quindi, inadatto ad un mondo dell'impiego precario che aspira all'impreparazione dei suoi candidati per giustificare una retribuzione equivalente a quella del terzo mondo. A questo punto, apprese le nuove regole della sopravvivenza secondo le quali laurea e master valgono quanto carta straccia, bisogna reinventarsi con un piano di emergenza che prevede la formazione di una banda e di un grande colpo. O meglio, prevede la realizzazione e il lancio sul "mercato" di una sofisticata sostanza stupefacente ai limiti della legalità. Tutto rigorosamente home made, naturalmente. L'idea è di Pietro Zinni, un neurobiologo "affamato" dai tagli alla ricerca e costretto ad improvvisarsi criminale ma con un certo stile, visto che si tratta pur sempre di una mente geniale.


Un piano in quattro punti
Perché tutto si realizzi nel migliore dei modi, però, bisogna andare per step. La fase uno prevede il reclutamento di altre menti al di sopra della media per intelligenza ma ben al di sotto per quanto riguarda il reddito minimo. Con la fase due si passa alla realizzazione della merce da lanciare. La fase tre, la più complessa, richiede uno sforzo antropologico di alto livello dovendo trasformare un gruppo di nerd in animali da locali notturni atti allo spaccio. E per finire la fase quattro, ossia il rigoroso mantenimento dello stesso identico tenore di vita, tanto per non dare nell'occhio. Ma quando finalmente si esce dai margini della società e si sfiora un tenore di vita al di sopra di qualsiasi immaginazione anche per delle menti dotate potrebbe non essere facile resistere alle tentazioni.

Giovani registi precari crescono

Ai giovani autori, scrittori o cineasti che siano, si consiglia sempre di utilizzare per la loro opera di esordio un soggetto di cui conoscono perfettamente ogni minimo dettaglio e segreto. Però, ad essere onesti, non è sufficiente essere ferrati nella materia trattata per non venir bollati immediatamente da pubblico e critica come superficiali od omologati. Perché la magia di un'opera prima si compia c'è soprattutto bisogno di un punto di vista, di un tocco personale e di uno sguardo che, per quanto condizionato da riferimenti culturali precisi, sappia rivisitare tutto in un modo unico. Certo, è più facile a dirsi che a farsi ma non impossibile. Sydney Sibilia, ad esempio, è riuscito chiaramente nell'intento con Smetto quando voglio andando ben oltre qualsiasi aspettativa iniziale. Poco più che trentenne, il neoregista ha avuto l'intuizione di prendere le sue esperienze personali come animatore di villaggi, cassiere in una nota catena di fast food a Londra e realizzatore di cortometraggi unendole alla realtà sociale attuale non certo brillante e a chiari riferimenti cine-televisivi alla Breaking Bad. Il tutto miscelato con una comicità schietta e mai artefatta che rende la visione di Sibilia psichedelicamente personale. In questo modo è possibile partire da un articolo di giornale sul precariato dei laureati, andare oltre il problema sociale di una meritocrazia assente e farne una commedia dal tono dolce/amaro capace di essere ancora più sferzante di qualsiasi film di denuncia. Perché, come molti dei nostri grandi autori del passato c'insegnano, un regista non ha a sua disposizione arma più feroce e tagliente di una risata.

Quando The Big Bang Theory incontra Ocean's Eleven a Roma

Prendiamo dei tipi alla Sheldon, Leonard, Howard e Raj e, per poco più di novanta minuti, proviamo ad allontanarli dal loro protetto mondo di genialità trapiantandoli nella realtà romana e costringendoli a trasformarsi in truffatori ammiccanti alla Ocean's eleven. Sulla carta il risultato può sembrare assurdo e totalmente folle, ma quando il team più furbo di Las Vegas incontra quello meno preparato al crimine di Roma si producono impreviste scintille di comicità. Il merito va soprattutto ad una coppia di sceneggiatori, Andrea Garello e Valerio Attanasio, capaci di consegnare un film finalmente scritto. Un'opera che, oltre la struttura narrativa più elementare, si prende cura di dettagli spesso sottovalutati come la personalità di ogni singolo membro del gruppo e l'evoluzione di tutti i personaggi coinvolti nella vicenda. Anzi, pur ricalcando alcune atmosfere alla Soderbergh, i "sette di Zinni" rivendicano una personalità forte e autonoma che si fa sentire nel background di provenienza, nel linguaggio come nelle reazioni al mondo esterno. In questo modo Edoardo Leo, Pietro Sermonti, Libero De Rienzo, Valerio Aprea, Stefano Fresi, Lorenzo Lavia e Paolo Calabresi sotto gli smoking presi a prestito rimangono comunque i linguisti capaci di litigare in latino, gli economisti con la fissa di contare le carte a poker, gli archeologi affamati con presunti principi di celiachia ed i chimici corpulenti ma agili, vittime della loro stessa creatura. Tutto questo per raccontare, in chiave moderna e attuale, i pregi e le miserie dell'Italiano che, pur avendo migliorato il suo livello culturale, di fronte al rifiuto della società reagisce ancora con l'inventiva un po' estrema e sprovveduta di quei soliti ignoti.

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4.0/5