Recensione Skyfall (2012)

Skyfall si presenta come un'architettura ben strutturata ma tutt'altro che inaccessibile, dove gli elementi necessari alla riconoscibilità della saga si fondono armoniosamente con un'attenzione estetica e narrativa che portano chiaramente i segni del 'Mendes touch'.

Il risveglio dell'eroe

Ognuno ha almeno un hobby nella vita e quello di James Bond è la resurrezione. A chiarire il concetto a Silva, nuovo villan dal look platinato interpretato da Javier Bardem in Skyfall, è la stesso agente britannico che, apparentemente disinteressato della momentanea condizione di prigioniero, non smette di ribadire il concetto della sua "immortalità". Effettivamente, nonostante sia stato già chiarito in passato che dal punto di vista narrativo al massimo Si vive solo due volte, da quello della qualità cinematografica la spia britannica è stata protagonista di varie rinascite, risorgendo dalle proprie ceneri come un'abbagliante Fenice secondo il consenso o il dissenso ottenuto dai volti che si sono succeduti nella sua interpretazione. Perché dalla gloriosa rappresentazione di Sean Connery alla modernità di Daniel Craig, il successo della saga è stato determinato in gran parte dalla naturalezza con cui l'attore prescelto sia più o meno riuscito a impersonare lo stile dell'agente segreto.


Alla luce di questo si comprende anche il motivo dello scarso interesse dimostrato fino ad ora nei confronti dei registi che, di volta in volta, hanno cercato di adattarsi a una creatura dalla natura ben definita senza avere il coraggio di apportare troppe modifiche. Un atteggiamento, però, impossibile da sostenere ancora, se a posizionarsi dietro la macchina da presa è un autore come Sam Mendes. Dunque, cosa accade a un prodotto caratterizzato dalla lunga serialità se a rileggerlo è un regista premio Oscar? Semplice, si assiste alla definitiva rinascita di un franchise in cinema allo stato puro. Certo, che l'atmosfera intorno al mondo di Bond stesse cambiando si era percepito chiaramente fin da Casino Royale. In quel caso, grazie a un Daniel Craig controverso, i produttori Barbara Broccoli e Michael G. Wilson avevano accettato i suggerimenti d'intervenire in fase di sceneggiatura per rivedere e sconvolgere la struttura del personaggio introducendo sotto lo smoking un animo non sempre leggero da sostenere.

Una linea, questa, che Mendes decide di continuare a percorrere grazie alla scrittura emotiva di John Logan (Il Gladiatore, The Aviator, Hugo CAbret) e all'esperienza nel settore di Neal Purvis e Robert Wade (Il mondo non basta, La morte può attendere), per costruire una nuova avventura in grado di svilupparsi su più piani narrativi. Dunque, Skyfall si presenta come un'architettura ben strutturata ma tutt'altro che inaccessibile, dove gli elementi necessari alla riconoscibilità della saga si fondono armoniosamente con un'attenzione estetica e narrativa che portano chiaramente i segni del Mendes touch. Se nei primi cinque minuti si assiste alla classica scena d'inseguimento ad alto tasso d'azione sui tetti di Istanbul cui fanno seguito location sofisticate e donne ben disposte, fin dai raffinati titoli di testa accompagnati dalla voce di Adele si percepisce quanta importanza viene attribuita alla fotografia utilizzata per costruire, in un gioco di riflessi visivi e rimandi della memoria, le ombre in cui è destinato a vivere e combattere un uomo "caduto " come Bond.

In questo modo, per il suo eroe abbattuto e parzialmente archiviato, il regista di Revolutionary Road costruisce una sorta di viaggio temporale in cui affrontare gli spettri di una vita precedente con un pizzico di quell'ironia sprezzante diventata un vero marchio di fabbrica del personaggio. E' così che, tornato in servizio dopo un esilio volontario, Bond si trova per la prima volta a scontrarsi con la sua età e il rifiuto nei confronti di una realtà improvvisamente estranea. Intorno a lui il mondo è cambiato a una velocità impressionante, l'Inghilterra sembra aver perso la sua inattaccabilità e così anche la sede fortezza dell'MI6. Ma a subire la metamorfosi più pericolosa e inaspettata è la struttura genetica di un nemico sempre meno estraneo e sempre più somigliante. Tutto questo e l'impossibilità di negare troppo a lungo le proprie origini, sono gli elementi con i quali Mendes gestisce il percorso narrativo della prima vera drammaturgia introdotta in un film di 007, ideata per lasciare spazio espressivo a personaggi dotati di un'inedita intensità e legati da una sorta di fedeltà famigliare fino ad ora solo intuita. Così, pur divertendosi come il più appassionato dei fan a inserire gli immancabili rimandi alla tradizione bondiana e dovendo trattenere un entusiasmo adolescenziale di fronte al ritorno sul set della storica Aston Martin di Connery, si percepisce come tutta la tensione creativa del regista sia concentrata nello spingere volontariamente il personaggio sull'orlo di un baratro nell'attesa di vederlo risorgere o perdersi definitivamente.

Un rischio che non avrebbe avuto lo stesso impatto visivo ed emotivo senza la totale fiducia di un attore, disposto a lasciarsi andare a un'introspezione portata al limite dell'umana sopportazione. Nel caso in cui qualcuno avesse nutrito ancora dei dubbi sulle sue capacità, Craig dimostra come l'arte del rappresentare richiede soprattutto il sacrificio di allontanarsi da se stessi per mettersi al completo servizio del personaggio, abbracciandone trasformazioni e involuzioni. Per questo, già destrutturato fisicamente in Millennium - Uomini che odiano le donne, il suo corpo accetta di diventare ancora una volta specchio di una fragilità interiore, mostrando la stanchezza morale che lo fiacca ed i dubbi che segnano indelebilmente il suo volto. In questo modo, con gli occhi cerchiati di chi ha perso con se stesso gli scontri più importanti, scrive un capitolo fondamentale nella mitologia di un eroe che, pur non potendo fermare "la caduta del cielo", rimane ad affrontare gli eventi uscendone apparentemente indenne per rinascere al mondo finalmente come Bond, James Bond.

Movieplayer.it

5.0/5