Recensione Miele (2013)

Alcuni elementi narrativi irrisolti pesano sulla piena riuscita di un film che colpisce per la maturità stilistica con cui è stato diretto e per la capacità dell'autrice di non andare mai oltre le righe.

Nel tempo che ci rimane

E' capitato molte volte nella storia del cinema che attori decidessero di diventare registi, trasformandosi da intepreti del pensiero di un cineasta ad autori completi, dotati di una propria visione del mondo. In certi casi l'esperimento si è rivelato piuttosto deludente ed inutile, in altri, come in quello di Valeria Golino, ci troviamo a salutare la nascita di un'artista completa e originale. Non siamo davanti ad una genesi miracolosa, ma al duro lavoro di messa in scena e traduzione in immagini di un tema come il suicidio assistito. Miele, scritto assieme a Francesca Marciano e Valia Santella, è liberamente ispirato al romanzo di Mauro Covacich, A nome tuo, e racconta la storia di Irene, una donna che dedica la sua vita alle persone che soffrono. Detta così si rischia di dipingere il ritratto di una santa, votata alla salvezza dell'umanità. Irene invece pone fine alle sofferenze dei malati terminali, aiutandoli a morire senza dolore.


E' una presenza eterea la sua; entra nelle case silenziosamente, parla a bassa voce, spiega con calma la procedura, conforta i familiari. A cadenza regolare vola in Messico per rifornirsi del potente barbiturico che provoca la morte, una sostanza ormai fuori dal prontuario farmaceutico e dichiarata illegale in Italia; contattata di volta in volta dal suo responsabile (Libero De Rienzo), viaggia per tutta l'Italia supportando decine di persone in un momento tragico della loro esistenza. E' una vita, la sua, che la costringe a dire bugie al padre, al compagno, agli amici. Quando riceve la richiesta da parte di un ingegnere di Roma, Carlo Grimaldi, Miele, questo il nome in codice di Irene, si prepara ad eseguire il suo compito come sempre; salvo poi scoprire che l'uomo in questione non è un malato terminale, ma una persona depressa che non ha più nulla da chiedere alla vita. Irene, che nelle mani dell'ingegnere ha consegnato come da protocollo la boccetta di lamputal, rifiuta di assecondare la volontà di Carlo ed inizia a insinuarsi nella sua vita, con la segreta speranza di salvarlo. Travolto dal calore e dall'affetto di Irene, che arriva ad aggredirlo fisicamente, pur di scuoterlo, l'uomo si fa affascinare e per qualche tempo dimentica i suoi propositi.

Miele colpisce per la maturità stilistica con cui è stato diretto e per la capacità dell'autrice di non andare mai oltre le righe, filmando con pudore le scene relative alla morte delle persone che si rivolgono ad Irene, una compostezza che tuttavia non toglie importanza a quanto (non) si vede. La Golino ha diretto un film sobrio, una pellicola costruita con ricercatezza estetica sia nella composizione delle inquadrature che nell'attenzione maniacale al suono. Le canzoni in cui Irene si rifugia nella prima sequenza, dopo il primo intervento, l'accompagnamento musicale che viene scelto dai pazienti, il contrasto tra i rumori del mondo e il mare in cui la protagonista nuota rabbiosamente, quasi per ritrovare una connessione con i propri pensieri. E' una pellicola non ideologica in cui non si propugna una tesi rispetto all'altra, perché le contraddizioni e le successive riflessioni, etiche e affettive, si incarnano proprio nel personaggio interpretato da Jasmine Trinca.
Irene è una donna che sa il fatto suo, eppure, nonostante ripeta a più riprese che quello che sta facendo sia importante, viene sfibrata nel profondo da quella vita che letteralmente le appesantisce il cuore. L'unica persona in grado di incrinarne le certezze è proprio il paziente che non riesce a seguire nella maniera canonica, un Carlo Cecchi come sempre inappuntabile. E' un enigma che si svela poco a poco l'ingegnere, colto, ma amante delle TV spazzatura, quasi una sprezzante conferma della sua irriducibile diversità da quella che definisca "imbecillità quotidiana". Cinico, nichilista, depresso a tal punto che niente, neanche il rapporto con quella ragazza, può spingerlo a riconsiderare una decisione irrevocabile. Per quanto Irene possa essere presente, infatti, ai limiti dell'intrusione, non possiede certo gli strumenti per affrontare la malattia invisibile dell'uomo, una morsa che lo porterà all'unico epilogo possibile per una persona così priva di interesse per la vita.
A macchiare la piena riuscita del film ci sono alcuni elementi narrativi irrisolti; il costo molto alto dell'operazione allude ad una netta separazione tra ricchi e poveri, come se scegliere di morire con dignità sia appannaggio solo delle classi abbienti; c'è quindi un aspetto lucroso nell'attività di Irene che ne intorbidisce le buone intenzioni e che, al di là di un colloquio fra i protagonisti, non è mai affrontato del tutto. Come non affrontato del tutto è il discorso relativo alla depressione di Grimaldi equiparata ingiustamente ad una malattia terminale; e se Irene pronuncia una frase molto chiara ("Aiuto i malati, non uccido i depressi"), Golino e le sceneggiatrici scelgono di non andare oltre in quello che sarebbe stato un percorso certamente più complesso, ma forse necessario; come se, arrivati ad un passo dal cuore del confronto tra Carlo e Irene, un duello a volte anche divertente, ma senza esclusione di colpi che delinea due mondi contrapposti, pur se umanamente vicini, ci si arrestasse per non disturbare; a farne le spese è la tensione drammatica che si affievolisce nettamente proprio quando il conflitto in atto avrebbe potuto essere più profondo e incisivo. Alla Golino va comunque riconosciuto il merito di essersi addentrata in un campo minato e di aver dato vita ad un'opera coraggiosa e mai banale. Miele resta uno dei migliori esordi cinematografici degli ultimi anni.

Movieplayer.it

3.0/5