Recensione Mea Maxima Culpa. Silenzio nella casa di Dio (2012)

Il documentario di Alex Gibney ricostruisce mezzo secolo di abusi su minori da parte di preti cattolici, concentrandosi sui bambini sordomuti di Milwaukee e seguendo la coraggiosa battaglia di quattro di loro per avere giustizia.

Un silenzio assordante

Non poteva essere più appropriato, il periodo scelto da Feltrinelli Real Cinema per distribuire in sala (tra il 18 e il 22 marzo, in varie città italiane) un documentario come Mea Maxima Culpa. Silenzio nella casa di Dio. L'orrore della pedofilia nel clero cattolico rappresenta infatti, da sempre, un argomento particolarmente sentito tra credenti e laici, e un tasto dolente per le gerarchie ecclesiastiche, divise tra impotenza e vere e proprie connivenze. L'elezione al soglio pontificio di Jorge Maria Bergoglio, malgrado i dubbi suscitati dalla pagina oscura (e forse impossibile da chiarire del tutto) dei rapporti con la dittatura argentina, ha generato forti speranze, anche in relazione a un cambiamento nel modo di affrontare questa piaga. Piaga diffusa ovunque, dagli Stati Uniti all'Europa fino al Sud America, e vecchia quanto la Chiesa stessa: il film di Alex Gibney (già premio Oscar per il suo Taxi to the Dark Side) si concentra in particolar modo sul caso della diocesi di Milwaukee, dove il religioso Lawrence Murphy abusò, tra gli anni '50 e i '70, di oltre 200 piccoli ospiti dell'istituto per ragazzi sordomuti da lui retto. La coraggiosa denuncia di quattro di loro, scontratisi in tre decenni con un muro di gomma di reticenze, complicità e tentativi di discredito, costituisce il cuore tematico di questo documentario; questo segue l'odissea personale dei quattro uomini, il travaglio emotivo di eventi che segnano a fondo e in modo irreparabile la vita di un essere umano, e la natura viscida e complice di chi avrebbe dovuto proteggerli. Collateralmente, il documentario tratta il caso di Marcial Maciel Degollado, prete messicano influente e molto stimato da Karol Wojtyla, ma soprattutto stupratore e criminale senza scrupoli, in seguito rimosso dal suo incarico da Benedetto XVI; e quello dell'irlandese Tony Walsh, altro sacerdote (nonché cantante dilettante di rock and roll) resosi responsabile di analoghi atti, e beneficiante di analoghe protezioni.


Il film di Gibney, è bene dirlo, ha meriti che in sé sono più tematici che artistici. La struttura del documentario alterna interviste, fotografie e spezzoni di filmati d'epoca (tra le prime, si segnalano gli interventi di Robert Mickens, corrispondente dal Vaticano per il settimanale inglese The Tablet, e di Marco Politi, vaticanista de Il Fatto Quotidiano) con intermezzi ricostruiti, in cui i principali protagonisti della vicenda sono interpretati da attori professionisti. La formula usata dal regista è quindi quella di un classico documentario televisivo, o di un reportage tematico, senza che si segnalino soluzioni di regia o montaggio particolarmente innovative. Si avverte, piuttosto, una certa discontinuità nella struttura "narrativa" del film: questo si concentra per gran parte della sua durata sul caso di Milwaukee, fa poi un excursus (piuttosto brusco) sulla vicenda di Maciel, in seguito torna sulla linea narrativa principale per poi affrontare anche il caso di Walsh e fare un cenno (che ci sarebbe piaciuto veder approfondito) sullo scandalo degli abusi nell'Istituto Provolo di Verona. Il coinvolgimento, l'alta temperatura emotiva, l'indignazione e (in larghi tratti) l'orrore che si prova a veder raccontati sullo schermo i fatti, sono dovuti più alla peculiarità del tema trattato, alla sua naturale capacità di far prendere posizione e provocare sentimenti forti, piuttosto che alle caratteristiche del film. L'assunto di fondo, comunque, è chiaro (e anch'esso naturalmente capace di provocare rabbia e discussioni): in tutto il mondo, i casi di pedofilia nel clero vengono coperti e minimizzati, e i loro responsabili sottratti alla giustizia, da una sorta di "congiura del silenzio" che dalla dimensione locale arriva fino ai piani alti della Curia. La tesi, lungi dal configurarsi come complottista, viene suffragata da indizi, riscontri e testimonianze che hanno coinvolto persone vicine agli ultimi due pontefici.

In questo, la figura di Joseph Ratzinger (fino a pochi giorni fa Benedetto XVI) è quella che emerge come maggiormente complessa: in parte irrimediabilmente complice, in quanto informato su tutti i casi di pedofilia, in gran parte impuniti, avvenuti nelle diocesi di tutto il mondo (nel 2001, l'allora cardinale incentrò su di sé la gestione del problema, ordinando che ogni denuncia passasse per il suo tavolo); in parte severo moralizzatore, con la sua battaglia che portò, nel 2006, all'estromissione del messicano Maciel da ogni compito pastorale. Ratzinger appare compromesso, forse suo malgrado, con una struttura di potere che tende primariamente ad autoconservarsi. Una figura che, nella discutibilità del suo operato e delle sue posizioni, appare qui ancora meno "divina" e più umana (per non dire fragile) di quanto le sue storiche dimissioni l'abbiano già fatta apparire. Ombre più pesanti sono quelle che il documentario getta sul predecessore di Ratzinger, Karol Wojtyla, di cui apprendiamo la gravissima compromissione con lo stesso Maciel, il suo chiudere gli occhi sulle terribili notizie che iniziavano a trapelare sull'operato del prete messicano. L'aver trattato senza timori reverenziali una figura che gode tuttora di una grandissima popolarità, come quella del papa polacco, mostra il coraggio del cattolico Gibney nell'affrontare le zone d'ombra della storia; nel tentare di rimetterne in discussione la versione già scritta, sempre nell'ottica di un futuro per cui (laicamente) vale la pena lottare.

In tutto ciò, e come contrapposti nella loro dimensione umana, eppure straordinariamente forte, a un moloch tanto statuario quanto ormai vecchio e vulnerabile quale quello della Chiesa, emergono i quattro protagonisti della vicenda-Murphy: eroi, come li ha definiti lo stesso regista, incapaci di esprimere il proprio pensiero con la voce, ma così tenaci nel renderlo ascoltabile a tutto il mondo, in trent'anni, scontrandosi con tentativi di ridurli al silenzio più gravi di qualsiasi disabilità. La sincerità dei loro volti, delle loro espressioni e dei loro racconti nella lingua dei segni, sono la testimonianza più toccante, e autentica, che questo Mea Maxima Culpa offre: quanto basta per farne un'opera degna di essere vista.

Movieplayer.it

3.0/5