Recensione Il superstite (2013)

Lo scozzese Paul Wright, al suo primo lungometraggio, dirige un poema lisergico con protagonista il sopravvissuto di una tragedia in mare: nel ruolo centrale, il giovane e promettente George MacKay.

Quando l'originalità non è un pregio

Con uno spunto dal sapore verghiano, Il superstite racconta la vicenda di Aaron, unico sopravvissuto di una tragedia in mare in cui è morto anche il fratello. Roso dal senso di colpa e guardato con sospetto dal resto della comunità - proprio perché è sopravvissuto al contrario degli altri pescatori - il ragazzo finirà per cadere preda della follia. Lo scozzese Paul Wright, al suo primo lungometraggio, che gli è valso anche un British Independent Film Award come regista esordiente, più che raccontare il dramma del protagonista e dei personaggi che gli sono intorno (la madre, la ragazza del fratello morto), si concentra sulla pazzia del protagonista lasciandosi andare a un "visionarismo" confuso e misticheggiante.


I flashback, ovvero come ti rovino un film
Ma l'aspetto forse più deteriore di Il superstite va individuato probabilmente nella scellerata accumulazione di flashback pseudo-poetici, simil-Super8, in cui Aaron rivive la sua infanzia e lo stretto legame con il fratello. Le immagini dei due bambini abbracciati, che giocano, saltano e si divertono scorrono sullo schermo per costruire una banalissima opposizione tra il dramma del presente e la presunta felicità del passato. Inseriti inoltre come brevissimi intermezzi, quali ricordi estemporanei del protagonista, il loro senso si riduce proprio a questa semplice opposizione senza dirci nulla di più del carattere dei due fratelli. L'ambizione di Wright in effetti è semplicemente quella di costruire una dialettica visivo-emozionale, nel completo disinteresse verso i suoi personaggi. Ma, proprio perché i protagonisti del film sono lasciati al loro destino di figurine senza spessore, questi flashback appaiono come un tentativo di spingere alla commozione in modo calcolato e in fin dei conti poco sincero.

Il protagonista che non c'era
Epitome eclatante del fallimento di Il superstite è il suo protagonista. Aaron - interpretato dal promettente George MacKay, quest'anno nel novero dei giovani attori candidati al premio come astro nascente dei prestigiosi BAFTA - è un personaggio sgradevole e quasi autistico, violento e solitario, praticamente odiato da tutti tranne che da sua madre, ossessivamente concentrato sull'impossibile aspirazione di ritrovare suo fratello. Nonostante il dolore della perdita del fratello, Aaron è completamente ripiegato nel risentimento nei confronti del mondo che lo circonda e non manca occasione di sottolinearlo. Privo di qualsiasi umanità, il protagonista non riesce a trasferire sullo spettatore il suo dramma e sembra soffrire della sindrome del Simple Jack di Tropic Thunder, in cui - con grande consapevolezza teorica - Ben Stiller regista ci ricordava come un personaggio non possa essere troppo ottuso (o troppo buono, o troppo cattivo, ecc.), altrimenti appare come dis-umano.

Mostri e misticismi
Tutto concentrato nelle sue ambizioni visionarie, Paul Wright finisce per dare eccessivo peso allo stordimento del suo protagonista che crede di vedere, sentire e percepire un ipotetico mostro marino, il quale - così come gli ha portato via suo fratello - ora potrebbe restituirglielo integro. Questa presenza fantasmatica del mostro diabolico, il cui contraltare è l'invocazione a Dio perché faccia qualcosa per riportare la serenità, impregna Il superstite di un misticismo confuso e lisergico, autoreferenziale e freddo.

La comunità ostile
Un elemento potenzialmente interessante di Il superstite sarebbe potuto essere quello della comunità ostile che, in modo irrazionale, isola Aaron - il cui nome, biblicamente, rimanda al ruolo di guida spirituale di un popolo. L'isolamento però avviene non attraverso una umana e meschina cattiveria da parte della comunità quanto mediante il riflesso automatico di uno script - opera dello stesso regista - incapace di mettere a fuoco il fulcro del racconto. Tutti odiano il povero Aaron e lo maltrattano e lui a sua volta - nei rari momenti in cui non è perso nei suoi pensieri - si vendica e odia tutti, in un processo irreversibile quanto stancamente ripetitivo. Vien così fuori un film che si disperde tra reiterazione e slanci mistico-visionari e in cui, per una volta, si è costretti ad ammettere che l'originalità, quando non ben supportata da attento mestiere, non paga, anzi...

Movieplayer.it

2.0/5