Recensione I Want to Be a Soldier (2010)

All'opera di Christian Molina non mancherebbe proprio nulla per dirsi riuscita, eppure quello che stona è l'assenza di un vero e proprio punto di vista dell'autore in riflessione universale sull'essere umano.

Full Metal Boy

Ci sono storie che andrebbero raccontate col giusto tocco, immagini talmente realistiche e drammatiche che avrebbero bisogno di toni diversi per arrivare al pubblico in tutta la loro forza. E' il caso di I want to be a soldier, quarto lungometraggio dello spagnolo Christian Molina, presentato in concorso nella Alice nella Città al Festival Internazionale del Film di Roma. Il protagonista è Alex, un bambino di otto anni la cui vita cambia radicalmente quando i genitori, troppo distratti dalla nascita di due gemelli, gli regalano un televisore. Letteralmente sedotto dalle immagini violente che vengono trasmesse in tv, il bambino inizia una lenta e rovinosa metamorfosi che lo porta a diventare un bulletto violento. Viene guidato in questo scellerato percorso dal sergente Cluster, un amico immaginario, prodotto della fantasia del piccolo. Rabbioso nei confronti di un mondo che non comprende appieno, Alex indirizza il suo odio verso tutti: i fratellini, che tenta più volte di ferire, i professori, che assistono impotenti alle sue bravate in classe, i genitori, ormai prossimi al divorzio, testimoni inattivi di quello scempio. Un'assenza, la loro, che viene solo in parte sottolineata (si può definire semplicemente distratto il padre che per spirito di collaborazione aiuta il figlio a decorare la cameretta con bandiere delle SS e croci celtiche?). A nulla, poi, valgono i moniti dello psichiatra che inizia a seguire il piccolo; la terapia che vuole curare la "cattiveria" di Alex, sottoponendolo ad immagini televisive commoventi, che mostrano madri in guerra dilaniate dal dolore della perdita di un caro, ha lo stesso effetto di una minestrina per un malato terminale. Perché questo è Alex nella mente di tutti: un caso disperato, un ragazzino violento come tanti, che ha già la strada segnata.


All'opera del regista catalano (prodotta anche da Valeria Marini) non mancherebbe proprio niente per dirsi riuscita al 100%: c'è un soggetto di sicuro impatto, una straordinaria interpretazione del protagonista, Fergus Riordan, un ottimo coro di comprimari (guidati dal dolente Danny Glover, senza dimenticare la dura performance di Robert Englund) e uno stile interessante e mai banale. Eppure, quello che stona è l'assenza di un vero e proprio punto di vista dell'autore, quell'elemento sostanziale che trasforma il racconto (in questo caso dell'inaccettabile perdita dell'innocenza da parte di un ragazzino) in riflessione universale sull'essere umano. La fascinazione per la guerra che Alex subisce è molto (troppo) diretta, senza finezze né mediazioni da parte del regista, con esiti grossolani nella scansione del racconto. Questo materiale "incandescente", quindi, diventa nelle mani di Molina un dramma a forti tinte, ben girato, ma moralmente ambiguo.

Il bambino, infatti, viene sempre concepito come vaso vuoto da riempire, ora con saggi precetti, ora con nefasti deliri di onnipotenza. E' la televisione a renderlo "cattivo", sono le immagini commoventi che gli vengono "somministrate" dallo psichiatra a farlo (apparentemente) tornare sulla retta via. In questo andirivieni quello che si perde è il dolore del protagonista, semplificato e banalizzato. E non bastano le tante citazioni del cinema di Stanley Kubrick (Alex si chiama come il protagonista di Arancia Meccanica, viene sottoposto ad una specie di Cura Ludovico e si rade i capelli come i soldati di Full Metal Jacket) e di classici come Apocalypse Now (il protagonista dice ripetutamente di amare l'odore del Napalm al mattino) per dare classe (e senso) all'intera operazione.

Movieplayer.it

2.0/5