Recensione Hitchcock (2012)

Il pregio del film è rappresentato dalle qualità dei suoi interpreti e dalla capacità di un regista di muoversi agevolmente tra l'intimità dell'uomo e l'aspetto pubblico dell'artista, costruendo la tensione narrativa solamente intorno alla caratterizzazione dei personaggi.

Il tormento e l'estasi di un uomo geniale

I suoi film hanno fatto rabbrividire le platee cinematografiche di tutto il mondo, ma dietro il gusto per il delitto e la suspense si è sempre celato un senso dell'ironia dal gusto british e, naturalmente, noir. Insieme a quest'aspetto più leggero mostrato soprattutto nelle sue apparizioni televisive, Alfred Hitchcock ha nascosto però un mondo di fragilità e inquietudini che, andando oltre la genialità creativa, ha fatto di lui soprattutto un uomo. Ed è proprio per scavare all'interno di una natura quasi infantile imprigionata all'interno di un corpo limitante, che Sacha Gervasi ha accettato la sfida del suo primo lungometraggio di fiction. Certo, confrontarsi con l'impassibile Hitch, come lo chiamavano i suoi collaboratori, non è un lavoro adatto ai meno esperti, ma Gervasi ha trovato la giusta chiave d'interpretazione lasciando che sia l'essere umano con le sue incertezze a raccontare e determinare l'opera del genio cinematografico. Per questo motivo, partendo dai fatti e dalle suggestioni riportate nel libro di Stephen Rebello sulla lavorazione di Psycho, il regista sceglie di drammatizzare gli elementi a sua disposizione per fotografare il protagonista in un momento di passaggio tormentato dalla crisi creativa e da quella personale. Per comprendere meglio la struttura psicologica costruita nella sceneggiatura, però, bisogna partire dal presupposto che, nonostante oggi la memoria cinematografica lo ricordi come il maestro assoluto della suspense, Hitchcock non abbia mai goduto durante la sua carriera del sostegno della critica. Anzi, considerato come un autore di genere dalle caratteristiche popolari, ha dovuto attendere la politica degli autori dei Cahiers du Cinema e l'ammirazione di Francois Truffaut per ricevere un riconoscimento al suo lavoro.


Per questo motivo, mai premiato con un Oscar, il regista ha sempre visto nel pubblico il suo più implacabile recensore da conquistare e sedurre pellicola dopo pellicola con il brivido della paura. Ed è proprio il desiderio di dimostrare agli spettatori e a se stesso di essere ancora artisticamente vivo che, nel 1960, accetta la sfida lanciatagli da Ed Gein, serial killer del Wisconsin, per realizzare Psycho, la sua opera più innovativa. Così, a sessant'anni, Hitchcock rischia il tutto per tutto mettendo in pericolo la solidità economica e la sua tranquillità per sentirsi ancora libero di esplorare nuovi aspetti della paura. Tutto, purché al suo fianco ci sia sempre Alma, l'amore di una vita che per lui è stata moglie, confidente, sceneggiatrice e montatrice. Comprendere questi elementi è fondamentale per apprezzare pienamente la natura del lavoro portato a termine da Gervasi, visto che il suo intento è stato soprattutto quello di costruire un film di personaggi e situazioni emotive. Per questo motivo, è del tutto inutile e deludente aspettarsi risoluzioni di regia innovative o particolarmente personali, perché Hitchcock ha uno stile classico che richiama, non tanto al cinema degli anni Cinquanta e Sessanta, quanto al tipo di società e abitudini quotidiane del tempo. Dunque, dove si nasconde il valore di quest'opera che si concede il lusso di unire sullo stesso set due mostri sacri come Anthony Hopkins e Helen Mirren?

Semplice, il pregio del film è rappresentato proprio dalle qualità dei suoi interpreti e dalla capacità di un regista di muoversi agevolmente tra l'intimità dell'uomo e l'aspetto pubblico dell'artista, costruendo la tensione narrativa solamente intorno alla caratterizzazione dei personaggi. Lavorare esclusivamente attraverso le parole per evocare sensazioni e stati d'animo non è una sfida facile da vincere, soprattutto all'interno di un cinema sempre più in azione, ma lo sceneggiatore John J. McLaughlin è riuscito sicuramente nell'impresa. Nelle mani dei protagonisti ha consegnato una sceneggiatura in cui il movimento emotivo detta l'intero ritmo del film, passando con grazie e naturalezza dall'ironia ai tormenti creativi e personali. A rendere ancora più efficace questa narrazione intima è la sintonia con cui la coppia Hopkins/Mirren si confronta, andando oltre l'aridità che spesso caratterizza i personaggi di un biopic.
Lui, appesantito da una maschera imperfetta come in fondo era veramente il corpo di Hitchcock, lei immersa negli atteggiamenti di una donna intelligente destinata a essere pubblicamente messa in ombra dalle ossessioni bionde del marito, mettono in scena il dramma della gelosia all'interno di un matrimonio ormai maturo ma mai stanco di lottare e rinascere. In questo modo, la loro abitazione si trasforma in un palcoscenico sul quale poter interagire con maggior libertà e forza espressiva, mentre a Gervasi non rimane altro che utilizzare la telecamera per scrutare ossessivamente nel cuore di questa relazione senza offrire alcuna via di fuga ai due protagonisti. Un uso semplice della telecamera, se vogliamo, ma efficace per amplificare l'intensità dei confronti e l'impatto delle parole. Così, in questa messa in scena strutturalmente non elastica, solo i sentimenti, l'interiorità e il tormento personale creativo hanno libertà di espandersi all'infinito per dimostrare che la realtà di Alfred Hitchcock è stata incredibile quanto i suoi film.

Movieplayer.it

4.0/5