Recensione Frankenweenie (2012)

Potenza dei temi autobiografici unita al fascino retrò dell'animazione a passo uno, quale che sia l'ingrediente giusto per far funzionare un lavoro, stavolta Tim Burton lo ha azzeccato in pieno.

Piccoli freaks crescono

Per buona parte della critica negli ultimi anni il genio eccentrico e anticonformista di Tim Burton si era perso tra i fasti della celebrità. Il re degli outsider, licenziato dalla Disney ai tempi in cui Frankenweenie era solo un corto gotico e citazionista che aveva fatto storcere il naso ai padri di Topolino, Red e Toby e della Sirenetta perché ritenuto troppo pauroso, col tempo si era preso la sua rivincita costruendo una straordinaria carriera, sancendo una nuova lucrosa collaborazione con lo studio e mettendo a segno enormi successi con i suoi freak stralunati e ipersensibili. Opere come La fabbrica di cioccolato o il recente Alice in Wonderland avevano, però, lasciato indifferenti molti estimatori visto che, a fronte dell'abituale perfezione estetica tipica di Burton, era venuto meno quel 'cuore' che permea i suoi lavori più apprezzati. Il geniale regista californiano, felicemente trapiantato nella bruma londinese per amore, deve aver percepito il rischio del manierismo tanto da decidere di fare ritorno all'essenziale, rifugiandosi là dove tutto ha avuto inizio per riappropriarsi di quell'estro anarchico mai addomesticato. Nonostante i soldi e la posizione di rilievo conquistata a Hollywood, l'animo fanciullesco di Burton è rimasto immutato. Forse per questo la sua fantasia ha sempre dato il meglio nei lavori di animazione in stop motion, più liberi nei temi e meno vincolati alla corporeità degli attori. In tal senso Frankenweenie non fa eccezione.


Il sospetto che la scelta di attingere a un progetto già sviluppato in passato sia sintomo di una crisi d'ispirazione viene spazzato via dopo una manciata di minuti dall'inizio del film. A differenza di tanti corti gonfiati a lungometraggi con poche, stiracchiate idee, Frankenweenie è una fucina di trovate. Intelligentemente Burton condensa la vicenda in 87 poetici minuti, eliminando il superfluo e optando per un ritmo scoppiettante, scandito da arditi raccordi di montaggio che richiamano le invenzioni visive dei maestri Alfred Hitchcock e Orson Welles. L'incipit è semplicemente delizioso. Rispettando la tradizione, Tim Burton sospinge il pubblico dentro quell'avventura magica che è il cinema prendendolo per mano e stabilendo un'immediata complicità. Come nel caso del plastico di Beetlejuice - Spiritello porcello, delle invenzioni meccaniche di Edward mani di forbice e dell'antro umido in cui si muovono i freaks di Gotham City, anche stavolta in apertura ci viene fatto esplorare l'universo fisico o mentale che sarà poi 'il luogo' del film. Un omaggio alla settima arte homemade giocato astutamente sulla realtà/illusione del 3D (elegante, funzionale, mai invasivo) è ciò che il pubblico si trova davanti in uno degli esordi burtoniani più divertenti, fantasiosi, citazionisti, ma soprattutto personali, seguito da un'infilata di buffe scene in cui ci viene presentato il riflessivo Victor Frankenstein, perfetto alter ego del regista che, guarda caso, si diletta a realizzare filmini tridimensionali casalinghi utilizzando come protagonista il suo cucciolo Sparky. E il paffuto Sparky, protagonista di alcuni siparietti divertenti, è semplicemente irresistibile. Il suo creatore è riuscito nell'impresa di infondergli un calore e una vivacità tali da far intenerire anche lo spettatore più indifferente.

Potenza dei temi autobiografici unita al fascino retrò dell'animazione a passo uno, quale che sia l'ingrediente giusto per far funzionare un lavoro, stavolta Burton lo ha azzeccato in pieno. Frankenweenie funziona così bene proprio in virtù della sua apparente semplicità. Il regista ha creato una sintesi perfetta della sua opera, una sorta di hit parade ideale delle tematiche e dei personaggi che permeano il suo cinema, che qui si snoda di fronte allo spettatore in un flusso continuo. Si ride, si piange, ci si commuove, a tratti perfino ci si spaventa. Un mix ideale di gothic tale, ironia feroce e amore per la settima arte, in cui spiccano perle come l'immancabile omaggio a Vincent Price, la galleria dei 'mostruosi' compagni di scuola di Victor che più tardi genereranno a loro volta mostri veri, più o meno pericolosi, le imprese di Sparky, intento ad amoreggiare con la barboncina del cortile accanto dalle fattezze che richiamano la mitica sposa di Frankenstein Elsa Lanchester e le esilaranti lapidi del pet cemetery. Non mancano la tradizionale colonna sonora di Danny Elfman, efficace come non lo era da tempo, e la compilation dei suoi attori fidati (fatta eccezione per gli assenti Johnny Depp ed Helena Bonham Carter) in un puzzle che si compone perfettamente man mano che la storia procede.
L'orrore celato nella linda periferia residenziale di Edward mani di forbice, col tempo, non è venuto meno, anzi, se possibile, si è amplificato, ma la maturazione di un artista passa anche attraverso la sintesi della propria esperienza personale. Proprio nel suo essere un film per bambini, Frankenweenie rappresenta un punto di arrivo nell'opera del Burton più adulto e consapevole come lo era stato, qualche anno fa, Big Fish. Come Will Bloom veniva a patti con il suo amore/odio nei confronti di un genitore difficile da comprendere, così Victor - un Edward meno fragile, più sicuro e più preparato ad affrontare il mondo - impara ad accettare la diversità e la morte. Non è più necessario nascondersi in un castello incantato per sfuggire alla crudeltà del mondo, basta plasmare un amico che condivida la nostra eccentricità. Forte di una nuova consapevolezza, la mente di Tim Burton è maturata, ma il suo animo no. Il suo animo resta ancora fanciullo. Un binomio perfetto per produrre ancora incanto.

Movieplayer.it

4.0/5