Recensione BENUR un gladiatore in affitto (2012)

Il film ha la freschezza delle commedie, ma riesce ad esprimere con pertinenza e originalità il progressivo abbrutimento di una società incapace di realizzarsi nuova.

Circo Minimo

Siamo a Roma, impossibile sbagliarsi. Poco importa se i chilometri che separano il Colosseo da Tor Sapienza sono tantissimi; la Capitale sa essere madre e matrigna, splendida immagine dei fasti del passato e desolante ritratto della nuova povertà. Sergio e Maria sono fratelli e dividono lo stesso appartamento in periferia; piantata dal marito, la donna fa la telefonista erotica per una hot chat, mentre l'uomo, ex stuntman di Cinecittà, luogo mitico che onora con un segno della croce ad ogni suo passaggio, si diletta a fare il centurione davanti all'Anfiteatro Flavio. Menomato da un recente incidente sul lavoro che dovrebbe dargli diritto ad un risarcimento milionario, Sergio ha pochissime passioni: quella per la Roma e per la giovane barista del locale che frequenta quotidianamente. Di amici, nemmeno l'ombra. I pochi colleghi che con lui condividono quella specie di mestiere hanno il terrore di essere fregati e all'ombra delle grandi rovine imperiali c'è poco spazio per i veri rapporti umani. Almeno fino a quando non arriva Milan, immigrato clandestino bielorusso che incrocia Sergio per un lavoretto saltuario, ridipingere lo studio di un dentista; commissione che l'uomo, ingegnere in patria, svolge con bravura e professionalità tali da spingere il gladiattore ad un'impresa titanica. Allettato dai guadagni procurati da Milan, Sergio decide infatti di ospitarlo, di sfruttarne le doti nascoste e di dare vita ad un'impresa edile sui generis. Quell'uomo così pacato e dignitoso, già messo a dura prova dalla vita, sconvolgerà gli equilibri famigliari, farà sussultare il cuore di Maria e darà a ognuno la speranza di poter finalmente cambiare. Milan, però, è un clandestino e come tale la sua permanenza è costantemente in pericolo.


E' un oggetto molto strano, BENUR Un gladiatore in affitto, diretto da Massimo Andrei; all'apparenza innocuo e 'dolce' come una caramella, possiede in realtà un cuore velenoso e indigesto. Scritto da Gianni Clementi che ha riadattato per il grande schermo la propria pièce, Ben Hur, il film ha la freschezza delle commedie, ma riesce ad esprimere con pertinenza e originalità il progressivo abbrutimento di una società attaccata a valori vecchi e violenti, incapace di realizzarsi nuova. E' un'opera sobria, priva di gag scontate, in cui la comicità scaturisce dalla bravura e dalla totale adesione dei tre interpreti principali ai rispettivi personaggi, diventati quasi una seconda pelle, dopo anni di lunga frequentazione teatrale; e non è un fattore secondario che siano loro stessi, Nicola Pistoia, Paolo Triestino ed Elisabetta De Vito, a portare sul grande schermo i loro alter ego. Andrei riesce a sfruttare questo vincolo privilegiato tra attore e maschera, adattandolo in modo da non perdere nulla della sua specificità nel passaggio al cinema. Se a teatro l'intreccio si risolve in un unico ambiente, l'opprimente salotto di Sergio e Maria, nel lungometraggio del regista partenopeo i personaggi sono liberi di andare, di uscire da quelle quattro mura, ma il movimento non è mai arioso, soddisfacente, anzi riporta sempre allo stesso punto di partenza.

Fondamentale è stato il lavoro sui luoghi che non sono solo il palcoscenico delle azioni, ma diventano il correlativo interno dei protagonisti; così la tragedia di tre esseri umani miserabili viene covata e deflagra nello scenario di un quartiere dormitorio senza anima. Che il mondo abitato da Sergio, Maria e Milan sia desolato, viene raccontato da piccoli dettagli, come la deprimente cena a base di sottaceti e surgelati che i due fratelli consumano, senza rivolgersi quasi parola, davanti ad uno stupido quiz televisivo. Il gusto acre del racconto viene aumentato dalle battute ciniche di Sergio-Pistoia che al cospetto del gentile oppositore non può fare altro che replicare le dinamiche violente e distruttive messe in atto da sempre con la sorella Maria; i dialoghi sono l'esempio più luminoso di quanto si possano incarognire certe relazioni costruite non sul reale rispetto, ma solo su utilità e bisogno. Ciò non vuol dire che non si rida; gli scambi di battute sono divertenti e divertiti, e il linguaggio astruso dello straniero Milan, un grammelot capitolin-blielorusso, sa essere buffo. Se alcuni elementi risultano forzati e non perfettamente incastrati nello sviluppo della storia, compreso un epilogo forzatamente lieto che raffredda la nostra completa partecipazione emotiva, il film riesce a far luce su un ambiente troppo poco frequentato dal nostro cinema, un habitat fatto da uomini e donne che non sanno affrancarsi da certi auto convincimenti e che solo davanti ad una tragedia riescono a divincolarsi da un destino disgraziato. Tanto basta però per rimanere coinvolti dalla vicenda di Sergio e Milan. E per preservare il cuore (nerissimo) della storia.

Movieplayer.it

3.0/5