Recensione Apache (2013)

Nonostante un intreccio reale simile a molte vicende già raccontate, la storia narrata da Thierry De Peretti assume originalità e forza emotiva proprio grazie allo sconsiderato spaesamento di una generazione che sembra essersi persa nel tentativo di rintracciare un'appartenenza comune.

La legge della tribù

Nell'immaginario collettivo Apache richiama immediatamente alla memoria paesaggi western e le vicende di una delle più tenaci e orgogliose tribù indiane. Un popolo guerriero che, nonostante fosse in origine nomade, ha stabilito con il territorio un profondo legame di riconoscibilità e appartenenza, accettando di lottare fino quasi all'estinzione per la sua difesa. In modo del tutto diverso, però, lo stesso termine è stato utilizzato dalla polizia parigina per caratterizzare i cattivi ragazzi che per anni hanno infestato le strade di Belleville. Così, attingendo a piene mani da entrambe le definizioni e miscelandole tra loro, il regista corso Thierry De Peretti ha definito le origini e la natura dei cinque adolescenti di Porto Vecchio destinati a cambiare definitivamente l'immagine turistica della Corsica con l'efferatezza di un delitto incosciente. Provenienti da diverse realtà etniche e culturali, i suoi Apache condividono una condizione di emarginazione sociale che, oltre a far nascere un istintivo fastidio per l'orda di turisti usurpatori, sviluppa un'insofferente disprezzo per chi vive una condizione privilegiata. Per questo motivo, probabilmente, appare naturale saccheggiare la villa dove il padre di Aziz lavora come custode e, altrettanto normale, è progettare l'eliminazione del ragazzo marocchino spinto dalla sua famiglia a confessare il furto.


Perché la Corsica, paese dalle mutevoli vicissitudini storiche e dalle varie appartenenze etniche, sembra garantire una impunità assicurata. Partendo da questi presupposti il film, nato da un fatto di cronaca realmente accaduto otto anni fa, potrebbe facilmente inserirsi e scomparire all'interno di un genere ampiamente esplorato dove la gioventù fa quasi sempre rima con disorientamento e violenza. Eppure, nonostante un intreccio reale simile a molte vicende già raccontate, la storia raccontata da Peretti assume originalità e forza emotiva grazie allo sconsiderato spaesamento di una generazione che sembra essersi persa nel tentativo di rintracciare un'appartenenza comune. Ognuno dei cinque protagonisti, pur facendo formalmente parte di un gruppo, agisce in maniera autonoma dando voce ad una rabbia personale o ad una frustrazione silenziosa. Solamente l'elemento dissonante della morte li porta ad un unione necessaria per "seppellire" il segreto e per riconoscersi, forse, meno colpevoli. All'interno di queste dinamiche emotive, però, interviene il tocco determinante del regista che, scegliendo di utilizzare poca luce artificiale e numerosi piani sequenza, ha reso l'immagine dura e "fisica" dando all'insieme un forte senso di realismo dal quale è difficile fuggire.

Così, una volta concesso il tempo d'introdurre i protagonisti e giustificare le loro azioni successive, Peretti si prende interamente la responsabilità di accompagnare lo spettatore nello svolgimento e nelle conseguenze nate dalla violenza. Un compito che sostiene perfettamente mettendo gli osservatori esterni sempre un passo avanti alla vittima come ai suoi carnefici ma, allo stesso tempo, costruendo un margine di dubbio capace di rimane in sospeso fino all'atto finale. Un trucco che trova la sua espressione più sofisticata nella rappresentazione della morte, dipinta senza alcun filtro ma, allo stesso tempo, evitando inutili compiacimenti estetici. Perché nell'ottica di Peretti più del chiaramente visto è fondamentale il sentito e provato. Seguendo questo principio, dunque, l'omicidio viene rappresentato come un atto tanto osceno per la sua assurdità quanto imprevisto. Nonostante la presenza di un fucile carico faccia pensare ad una premeditazione, c'è un elemento d'imprevedibilità che accomuna allo stesso modo spettatori e personaggi. Ed è proprio attraverso questa sospensione a volte vicina al ripensamento, che il regista costruisce una delle scene emotivamente più forti del cinema giovanile. Così, illuminati dal sole estivo, vittima e assassini vivono la medesima incredula realtà fuggendo, sbagliando il tiro, esitando per poi tornare a finire il proprio compito. Il tutto con una velocità che sa d'eternità.

Movieplayer.it

3.0/5