Recensione Alì ha gli occhi azzurri (2012)

Attraverso l'utilizzo di una vicenda piccola e personale, il regista riesce a condurre lo spettatore verso una riflessione più ampia, ponendolo all'interno di un naturale movimento evolutivo dove anime e linguaggi diversi cercano di convivere.

I nuovi ragazzi di vita

Seguire le orme di un grande regista senza cadere nello sterile omaggio è possibile, purché si accetti il rischio di ricercare e utilizzare un linguaggio personale. Una sfida che Claudio Giovannesi, chiaramente ispirato dalla poetica di strada di Pierpaolo Pasolini, raccoglie riuscendo a trattare la spinosa materia dell'adolescenza di borgata attraverso formule e teorie che appartengono al suo cinema e alla realtà raccontata. Per questo motivo, pur se ambientato nei sobborghi di Ostia tra ragazzi alle prese con una realtà marginale ed emarginata, Alì ha gli occhi azzurri riesce nello scopo di proporre una visione sociale e generazionale che non cede mai alla retorica o al facile utilizzo di un'emotività preconfezionata. Allo stesso modo, utilizzando la macchina da presa come uno strumento con cui indagare, il regista veicola in modo produttivo le suggestioni create dall'innocenza perduta dei fratelli Dardenne o dall' "infanzia" abbandonata di Truffaut, riuscendo dove altri colleghi illustri hanno fallito, ossia rinunciare al sentito dire proponendo un racconto non solo realistico ma consapevole e mai superficiale.


L'elemento chiave alla base di questo successo è sicuramente un'osservazione puntigliosa che, insieme alla completa immersione nel territorio da studiare e descrivere, ha offerto al regista e allo sceneggiatore Filippo Gravino la possibilità di utilizzare un materiale naturalmente cinematografico. Al centro di questa messa a fuoco Giovannesi inserisce i personaggi di Nadir e Stefano, due adolescenti che quotidianamente si confrontano con un mondo privo di sfumature. In un contesto simile i piccoli reati vengono compiuti con un'inconsapevole leggerezza, per poi lasciare spazio alle battaglie portate avanti nel nome dell'amore e di un onorevole senso dell'amicizia. A questo, però, si aggiunge la variabile dell'integrazione razziale che, se resa più incisiva dal desiderio di staccarsi dalla cultura della propria famiglia, definisce in ogni aspetto l'inevitabile cambiamento della nostra società. Dunque, attraverso l'utilizzo di una vicenda piccola e personale, il regista riesce a condurre lo spettatore verso una riflessione più ampia, ponendolo all'interno di un naturale movimento evolutivo dove anime e linguaggi diversi cercano di convivere.

Certo, la consapevolezza di trovarci di fronte a degli attori di strada chiamati a mettere in scena le proprie vite aumenta il valore e la profondità stessa del racconto, ma questo tocco di neorealismo non rappresenta l'unica scelta vincente del film. Con il documentario Fratelli d'Italia Giovannesi aveva già dimostrato di essere un autore dedito alle imprese più difficili dimostrando di avere un talento per rintracciare il particolare e utilizzarlo per ricostruire una visione d'insieme. Una capacità, questa, che ha continuato a sfruttare in Alì ha gli occhi azzurri per scoprire modi di dire, abbigliamento e abitudini capaci di definire il territorio e i suoi abitanti più di qualunque immagine retorica. Ad armonizzare il tutto, poi, è arrivato il tocco geniale di Daniele Ciprì che, consapevole di non dover eccedere nella resa visiva di un ambiente naturalmente espressivo, ha gestito una fotografia quasi invisibile capace di attendere e sfruttare la drammatica trascuratezza dei luoghi e la gioventù dei protagonisti, apparentemente senza speranza.

Movieplayer.it

4.0/5