Recensione A Dangerous Method (2011)

Le prove attoriali si rivelano un elemento fondamentale di un film sì imperfetto ma affascinante, che conferma il suo autore come esponente di un cinema in grado di rimettersi sempre in gioco, senza aver paura di suscitare discussioni ed, eventualmente, dividere.

Parole che mutano individui

Zurigo, 1904. Il giovane e brillante psichiatra Carl Gustav Jung si trova a dover curare una singolare paziente, la giovane russa Sabina Spielrein, diciotto anni, condizione sociale agiata e una storia di umiliazioni e violenze familiari alle spalle. La ragazza è affetta da una grave forma di isteria che le provoca comportamenti aggressivi e a volte violenti, ma ha anche una mente brillante, parla fluentemente il tedesco ed è intenzionata ad intraprendere a sua volta la carriera medica nel campo psichiatrico. Nel frattempo, le rivoluzionarie idee di Sigmund Freud stanno prendendo sempre più piede nel mondo della psichiatria, e lo stesso Jung, seguace delle teorie del medico austriaco, decide di applicare il suo metodo su Sabina. La ragazza migliora sensibilmente, ma intreccia anche una pericolosa relazione con il giovane psichiatra, mentre quest'ultimo, sempre più convinto che le teorie del suo maestro sul legame tra sessualità e disturbi emotivi siano insufficienti per spiegare la genesi di questi ultimi, inizia con questi un rapporto di amicizia prima epistolare, poi personale. Ma l'intreccio del sempre più intenso rapporto di Jung con Sabina, e della sua stimolante amicizia con Freud, porterà a conseguenze imprevedibili, ed emotivamente devastanti, per tutti e tre i soggetti coinvolti.


C'era molta attesa intorno a questo A Dangerous Method, film nato da una piece teatrale che il suo stesso autore Christopher Hampton ha trasformato in una sceneggiatura; una storia che esplora da vicino i torbidi ed ambigui rapporti tra tre personalità che si riveleranno fondamentali per l'evoluzione della scienza psichiatrica del ventesimo secolo. Non è casuale l'interesse per un soggetto come questo da parte di un regista come David Cronenberg, la cui evoluzione, negli ultimi anni, è stata peculiare: dalla graficità corporea delle sue pellicole degli anni '80 e (in parte) '90, alla predilezione di soggetti sulla carta più classici (A History of Violence e La promessa dell'assassino), in cui le ossessioni del regista canadese si sono spostate sul piano della mente e dei suoi labirinti, e in cui il tema della mutazione che da sempre lo affascina è divenuto tutto interno alla psiche umana, senza per questo perdere in pregnanza e forza espressiva. Cronenberg, qui, prosegue coerentemente in questo discorso, lavorando di nuovo su un soggetto non suo e insinuando nelle pieghe del racconto le sue tematiche di sempre, in quel binomio tra sesso e morte, pulsioni erotiche e istinti autodistruttivi, che qui viene asciugato di ogni spettacolarità filmica e fatto risalire alla sua fonte originale.

C'è una riflessione sul potere e sulla dipendenza, sul desiderio di possesso e sulla voglia di plasmare e riplasmare l'altro (che sia un amante o un proprio allievo) a proprio piacimento; c'è l'eterno contrasto tra natura e cultura, tra la necessità di soddisfare le proprie pulsioni e l'imperativo sociale di reprimerle, e i diversi modi di affrontare e gestire, da parte di ognuno, questo dualismo. Ci sono, soprattutto, tre personalità forti che tentano di trovare un riscontro, nel complesso intrecciarsi dei loro rapporti, alle teorie da loro elaborate, finendo per venirne consumati e profondamente cambiati. Il tema della mutazione torna dunque sul piano dei rapporti interpersonali, e su quello più squisitamente sociologico, come pretesa da parte della società di modificare l'individuo reprimendone gli istinti più profondi: l'unico personaggio che, nel film, sembra essere immune da questo processo è quello di Otto Gross, psichiatra dal carattere amorale e nichilista passato sotto le cure di Jung, e il cui sfrenato individualismo finisce per avere un'influenza fondamentale sul giovane psichiatra e sul rapporto con la sua paziente.
Quello che tuttavia ci si chiede, guardando questo A Dangerous Method, è se 100 minuti non siano forse troppo pochi per sviscerare tutti i temi contenuti in una sceneggiatura sì equilibrata ma che, specie nella prima parte, stenta un po' a far emergere il necessario aspetto emotivo della vicenda. La stessa componente sadomasochistica del rapporto tra Jung e Sabina, conseguenza delle drammatiche esperienze infantili di quest'ultima, non gode di un adeguato approfondimento, se non nei termini, piuttosto superficiali, di un rovesciamento dei rapporti di potere e del ruolo realmente dominante tra i due, che nell'ultima parte del film è decisamente appannaggio della ragazza. La regia è caratterizzata dal consueto rigore e dalla complessiva asciuttezza che abbiamo visto nel Cronenberg più recente, squarciata solo dai momenti, visivamente più forti, degli incontri tra i due amanti; ma sembra anch'essa soffrire, a tratti, di un'ingessatura tra le maglie di uno script che non sempre riesce a dare il necessario spessore ai personaggi e alle loro vicende. Personaggi che comunque godono di buone caratterizzazioni, dall'inquieto Michael Fassbender al volutamente granitico Viggo Mortensen nei panni dei due colleghi-rivali, oltre a un Vincent Cassel beffardo ed efficace nel ruolo di Otto Gross, e soprattutto a una Keira Knightley che supera brillantemente le insidie del ruolo, dando spessore, forza emotiva e credibilità al personaggio della futura psichiatra Sabina. Prove attoriali che si rivelano un elemento fondamentale di un film sì imperfetto ma affascinante, che conferma il suo autore come esponente di un cinema in grado di rimettersi sempre in gioco, senza aver paura di suscitare discussioni ed, eventualmente, dividere.

Movieplayer.it

3.0/5