Recensione Gli sfiorati (2011)

Matteo Rovere va oltre la concretezza del romanzo firmato da Sandro Veronesi e affida il destino del suo film al volere di un cast armonicamente amalgamato ma mai omologato, in cui le diverse individualità si mettono al servizio di personaggi decisamente in cerca di attori.

Protagonisti di un insolito destino

Gli sfiorati attraversano il mondo con il tratto personale della loro grafia. Esseri fragili e spesso incompleti, racchiudono nella tenera e incompiuta evoluzione delle loro vite il segreto di una sensibilità che tutto percepisce e poco comprende. Vivono al massimo, soffrono in silenzio e nascondono i desideri inconfessabili sotto una coltre di resistenza passiva. Gli altri li osservano nel loro peregrinare quotidiano senza riuscire a carpire nemmeno un attimo di quel logorio vitale celato tra le pause, le forme o la fluidità di una scrittura che, seppur riflesso di una minoranza, partecipa alla composizione di un ritratto universale. Di quest'umanità destinata, nonostante tutto, a lasciare una firma indelebile fa parte Mete con il suo giovanile risentimento per un padre che non riconosce, Bruno schiacciato da una separazione subita e Damiano, impegnato ad abitare spazi che non saranno mai suoi. A completare un quadro non solamente generazionale è una femminilità sfuggente e indefinita, vestita con disinvoltura dall'ossessiva Beatrice e dalla carnale Belinda, tentazione bionda capace di condurre il fratellastro Metè verso un "peccato" a lungo temuto e, infine, compiuto.


Ci sono film che molto devono a un'intuizione narrativa, a una suggestione personale o una visione registica. Altri, invece, costruiscono la loro potenza espressiva sulla capacità interpretativa di artisti in grado di arricchire il sofisticato mestiere dell'attore con una voce personale dalle inaspettate qualità benfiche. Questo è il caso de Gli sfiorati, secondo lungometraggio di Matteo Rovere che, andando oltre le pagine del romanzo omonimo firmato da Sandro Veronesi, affida il destino del suo film al volere di un cast armonicamente amalgamato in cui le diverse individualità si mettono al servizio di personaggi decisamente in cerca di attori. Così, nonostante la composizione di un trio maschile dalle caratteristiche piuttosto scontate, Andrea Bosca, Claudio Santamaria e Michele Riondino riescono a non cadere vittima di un modello giovanile ampiamente sfruttato da un certo cinema italiano per cui il tormento sempre si accompagna a un'alta borghesia dalle vaste presunzioni culturali. Al contrario, attraverso la descrizione di un'umanità non facilmente classificabile e per questo più realistica, tracciano il percorso di un malcontento comprensibile e condivisibile in cui l'ironica consapevolezza della propria situazione alleggerisce i toni di una vita in disordine. In questo modo, pur se membri onorari di tre diverse condizioni sociali, i protagonisti vanno oltre la rappresentazione generazionale cercando di scoprire i segreti di un'umanità in costante movimento, abituata alle mutazioni e apparentemente indifferente alle richieste esterne.

Per completare il quadro, gli sceneggiatori Francesco Piccolo e Laura Paolucci progettano una struttura narrativa dove la famiglia non rappresenta una sicurezza, le abitazioni sono provvisorie ed anche gli affetti rivelano una natura egoistica ed oscura. All'interno di questa realtà intima posta al centro di una Roma fatta di vicoli, locali notturni, feste esclusive e donne in astinenza d'amore, Bosca da vita ad un personaggio tenero e chiaramente disorientato. Costantemente messo alla prova dal desiderio sessuale per la sorellastra Belinda, il suo Mete prova a controllare e negare la tentazione, ma il risentimento per un padre estraneo e il rimpianto per una madre persa troppo presto lo indeboliscono tanto da fiaccare qualsiasi resistenza. Diverso è il percorso di Santamaria che, attraverso l'utilizzo di abiti, parole e movimenti costruisce la maschera di Bruno, solido padre di famiglia momentaneamente sconfitto dalla fine del suo matrimonio e dal ruolo di genitore part-time, mentre Riondino, senza troppo giri di parole, veste la superficialità di chi tutto vuole e a nulla rinuncia. Così, messa da parte la retorica di una generazione allo sbando, i tre attori riescono a definire i contorni di un ritratto dai colori vivaci in cui un umorismo un po' scanzonato tenta di allontanare il pericolo di un'autocompiacimento sempre in agguato.

Movieplayer.it

3.0/5