Per Daniel Craig niente è per sempre, tranne James Bond

Un debutto tra le perplessità seguito da un successo incredibile, che ne ha fatto forse il Bond più amato dopo Sean Connery: questa è la storia dello 007 Daniel Craig.

"Grazie per avermi fatto crepare di paura." Con questa affermazione sicuramente poco eroica rivolta ai due marines che lo avevano trasportato su di una speedboat lungo il Tamigi in occasione della presentazione alla stampa, Daniel Craig dava ufficialmente il via alla sua carriera come 007 più discusso della storia. Infatti, nonostante avesse vinto il confronto con altri nomi illustri come Eric Bana, Hugh Jackman, Ewan McGregor e Jude Law, l'incoronazione dell'attore come sesto volto ufficiale di James Bond non aveva certo riscosso il consenso generale. Anzi, a essere del tutto onesti, molti tra i più accaniti esperti della materia arricciarono il naso, invocando a gran voce il nome di Clive Owen, a quanto pare esteticamente e caratterialmente più adatto al ruolo. A Craig si imputavano molti "crimini", tra i quali l'essere troppo biondo, troppo giovane e insufficientemente alto. Se poi a questo si aggiungono un aspetto poco britannico e un background professionale formato in gran parte da ruoli di gangster e spacciatori, ecco completarsi il profilo del più imperfetto tra tutti i candidati. Eppure nel 2005 la MGM decise di rischiare il tutto per tutto proprio su queste caratteristiche così insolite, portando l'ormai intoccabile universo di Bond verso una nuova era. Così, con ben quindici anni in meno del suo predecessore Pierce Brosnan, Craig s'inserisce come l'elemento rivoluzionario destinato non a distruggere definitivamente il passato, ma a modificarlo in virtù di un futuro più interessante e attuale. Parlando sempre in termini di tempo, in questo modo La spia dell'MI6 viene trasportata indietro ai suoi anni giovanili, mentre la realizzazione cinematografica è lanciata verso una riproduzione sempre più adrenalinica dell'action. E' inutile dire che il volto segnato di Craig e un corpo costruito per il gesto atletico, sono gli elementi principali con cui creare la miscela esplosiva che alla fine ha infiammato il cuore degli appassionati, oggi disposti a ritrattare sulle loro perplessità iniziali e a considerare il biondo Daniel miglior 007 insieme all'immancabile Sean Connery.

A chiarire definitivamente le idee ad alcuni fan decisi addirittura a sabotare il progetto su internet, ci ha pensato l'inedito Casino Royale. Diretto da Martin Campbel, già esperto della materia per aver curato la regia di GoldenEye, il film prende spunto dal primo romanzo omonimo scritto da Ian Fleming negli anni cinquanta per sopravvivere alla noia di un matrimonio blasonato e mai portato sul grande schermo, se si fa eccezione della parodia 007 James Bond - Casino Royale interpretata da Peter Sellers e Woody Allen. Nella versione scritta dal premio Oscar Paul Haggis, invece, non si lascia certo spazio all'umorismo, dosando con attenzione anche l'imperturbabile sarcasmo di Bond. In questo caso i sorrisi ammiccanti e l'affascinante ironia lasciano il posto a un lato oscuro, quasi ingestibile dell'agente segreto, mai sperimentato fino a quel momento. Probabilmente i tempi sono maturi per mostrare un volto meno patinato dell'eroe e una violenza più esplicita. Così, improvvisamente l'esperienza di Craig in ruoli "discutibili" ( The Pusher, Era mio padre), si rivela fondamentale per definire le caratteristiche di un uomo sottoposto a un'evoluzione emotiva che per vivere decide di uccidere. Perché, andando oltre le conquiste sessuali, le location lussuose e i malvagi da sconfiggere si nasconde una verità mai percepita fino in fondo: James Bond è un killer. A svelarlo chiaramente è proprio l'attore inglese che, oltre ad un'intelligenza astuta, accetta di mettere in scena un istinto omicida sporcando, per la prima volta, l'impeccabile smoking della spia britannica con il sangue dei suoi nemici. In questo modo, interprete e personaggio iniziano un'attività di osservazione e completamento reciproco, percorrendo insieme i passi affrettati ma incerti di un uomo ancora preda delle proprie emozioni e incapace di gestire con misura una licenza di uccidere appena ottenuta e l'amore ingannevole di una donna destinata a lasciare un segno indelebile nella sua vita.
Dunque, l'immagine dell'eroe all'apparenza freddo e spietato, ma interiormente sempre in bilico sull'orlo del crollo emotivo, è riuscito a conquistare il cuore del pubblico e il favore della critica. La prova tangibile del successo sono i seicento milioni di dollari che attribuiscono a Casino Royale il primato di capitolo più remunerativo dell'intera saga e a Daniel Craig il diritto a farsi chiamare ancora Bond due anni dopo in Quantum of Solace. In questo caso, i produttori Barbara Broccoli e Michael Wilson, decisi a cavalcare l'onda di un successo insperato, coinvolgono ancora Paul Haggis nella sceneggiatura per cercare di dare continuità al racconto, mentre alla regia viene chiamato Marc Forster (Il cacciatore di aquiloni). Nonostante questi particolari, cui si sommano anche i nomi di Olga Kurylenko e Gemma Arterton nei panni delle immancabili Bond girl, è Daniel Craig a catalizzare l'attenzione su di se. E non semplicemente perché veste il ruolo di protagonista. Dopo aver dato voce alle mute inquietudini di un uomo in conflitto anche e soprattutto con la propria natura, lo sguardo tagliente di Craig questa volta mette a fuoco un protagonista divorato dal dubbio e dalla sfiducia. Convinto di essere stato tradito dalla misteriosa Vesper, l'unica per cui avrebbe rinunciato alla sua esistenza da doppio zero, avvia l'ennesima battaglia con un nemico esterno sempre pronto a ricondurlo di fronte ai propri fantasmi. Questa volta per interprete e personaggio la posta in gioco è rappresentata dalla presa di coscienza dei propri limiti e dalla comprensione degli altri. Perché, come ricorda Giancarlo Giannini, tornato nel ruolo della spia René Mathis, " i cattivi e gli eroi spesso si confondono tra loro" e agli uomini non rimane che imparare a distinguerne i tratti fondamentali. Un'attività resa ancora più difficile se portata avanti con una sete di vendetta che annebbia lo sguardo.
Così, con questo secondo capitolo dominato dall'imponenza di un attore disposto ad affondare completamente negli spettri del suo altre ego cinematografico, James Bond sembra mandare definitivamente in pensione un'invincibilità ormai irreale e inconsistente. Per questo motivo Daniel Craig non beve Martini agitato, non alza il sopracciglio, ne esce completamente incolume da uno scontro a fuoco sistemandosi la cravatta. Oggi, molti degli atteggiamenti da macho gentiluomo, che avevano contribuito a formare la leggenda della spia che non doveva chiedere mai, hanno ceduto il passo a una fallibilità e mortalità che, non solo rendono il personaggio riconoscibile per il pubblico, ma gli attribuiscono un significato eroico più concreto. Sicuramente, nel 1962 nessuno avrebbe mai scommesso un dollaro, figurarsi una sterlina, sul successo di un modello maschile "imperfetto". Nell'immaginario collettivo la licenza di uccidere poteva essere attribuita solamente a una personalità solida e definita, il cui ruolo era vivere nell'ombra per vegliare su di un'umanità inconsapevole, priva del dono dell'imperturbabilità. Eppure, sfogliando le pagine di Ian Fleming si scoprono, con una certa sorpresa, non tanto gli spunti per definire la personalità coriacea di un uomo solo contro il mondo, quanto i tormenti che lo affliggono per la natura stessa del suo ruolo. E sono queste sfumature ad aver ispirato Sam Mendes per la sua incursione d'autore nel mondo di Bond. Superata anche la crisi economica della MGM, che sembrava aver messo in serio pericolo la realizzazione del film, Skyfall viene annunciato formalmente come ventitreesimo capitolo, destinato a celebrare il mezzo secolo di 007. Ad attirare immediatamente l'attenzione di esperti e appassionati, è proprio la presenza di un insospettabile premio Oscar come Mendes dietro la macchina da presa.
A rendere possibile ciò che poteva sembrare improbabile, però, é proprio Daniel Craig che, durante un party tra amici, propone al regista di American Beauty questa sfida. Alcuni potranno dire che anche per un autore affermato é impossibile resistere al fascino dell'attore in smoking, ma, in realtà, i due sono uniti da una conoscenza personale e dalla comune passione per Bond. Craig, convinto della necessità di condurre la spia britannica verso nuovi luoghi emotivi, non sbaglia nel vedere il cinema fatto di narrazione e sentimenti di Mendes come l'elemento dispensabile per apportare l'evoluzione più significativa. Così, tornato in Inghilterra dopo sette anni di assenza, il regista tratteggia un nuovo percorso in cui, oltre le immancabili scene di action realizzate con una particolare attenzione al movimento e alla luce, è possibile intravedere i tratti riconoscibili di una poetica famigliare già espressa in film come Era mio padre e American Life. Da parte sua Craig mette corpo e anima a completa disposizione verso un ritorno al passato che, pur se impreziosito da alcuni riferimenti ai Bond d'annata, rappresenta una volontaria discesa verso l'inferno dei timori più ancestrali della spia britannica. In questo modo, nel guardare indietro all'origine della propria debolezza, l'eroe prende coscienza del valore delle proprie scelte e, facendo leva su una maggiore consapevolezza e un immutato spirito di sopravvivenza, spezza ogni legame con le sue origini per ritrovarsi finalmente libero. In questo modo, Mendes mette in scena un vero e proprio dramma esistenziale di cui, però, lascia ancora molti lati volontariamente inesplorati. Per ora non é possibile sapere o intuire quale direzione prenderà Bond. L'unica cosa certa é che a rappresentarlo ci sarà ancora lo sguardo indagatore e il volto vissuto di Daniel Craig.