Napoli 24: intervista a Paolo Sorrentino e gli altri autori del film

Abbiamo parlato con i registi e i produttori di Napoli 24, film collettivo finalmente in procinto di approdare in sala, ripercorrendo il cammino del progetto, tra committenze politiche e ambizioni che travalicano i confini partenopei.

Ventiquattro facce, ventiquattro anime di Napoli: è questo che il film collettivo tenuto insieme dal montaggio di Giogiò Franchini propone allo spettatore. Spettatore che ha dovuto attendere due anni, dopo la presentazione al Torino Film Festival nel 2010, per l'arrivo in sala di questa opera plurale, in cui spicca la firma di Paolo Sorrentino, il cui episodio chiude la carrellata di scorci partenopei proposta dai giovani autori, alcuni dei quali si sono nel frattempo affermati con altre opere di più ampio respiro. C'è la Napoli dei vicoli, dilaniata dagli omicidi, la Napoli della fede, la Napoli dei giovani che cercano l'emancipazione con un casting, la Napoli nostalgica della monarchia e della tradizione. A fare da collante tra questi microcosmi coesistenti è la vibrante umanità dei loro protagonisti, la forza della loro verità, sia essa di speranza, di rabbia o di rassegnazione. Insieme ai produttori Angelo Curti per Ananas, Nicola Giuliano per Indigo Film, a Paolo Sorrentino e al resto degli autori abbiamo ripercorso le tappe del progetto e commentato il suo valore artistico, ma anche politico e sociale.

Come è stata la gestazione di questo progetto?
Angelo Curti: Sia io che Nicola siamo padri di tre figli, e possiamo dire che questa è stata un'esperienza simile, per la quale dobbiamo ringraziare anche l'altro produttore, Giorgio Magliulo per Skydancers. Questo film è antico, è nato alla fine del 2006 da un suggerimento dell'assessore alla Cultura di Napoli e del presidente della Film Commission. Erano i giorni della prima crisi dei rifiuti, quelli che segnarono la fine dell'epoca Bassolino, e ci venne chiesto qualcosa che potesse risollevare l'immagine della città. In occasione di un altro disastro, quello del terremoto, Il Mattino titolò "Fate presto"; noi possiamo dire che siamo più sull'idea del "fare tardi", perché il film è stato poi annunciato nel 2008, e in quell'occasione L'Espresso accusò Paolo di aver intascato 200mila euro per il film, cosa a cui lui ha prontamente risposto con una lettera d'autore. Poi abbiamo presentato il progetto a Venezia, dove Rai Cinema si è aggiunta al contributo della regione, contributo che poi è andato perso. Dopo qualche mese abbiamo messo in piedi un concorso di idee che ha selezionato 103 proposte, e dopo averne incontrato gli autori siamo arrivati alle 23 attuali, a cui si aggiunge il contributo di Paolo. Dobbiamo ringraziare per il sostegno Rai Cinema e l'Istituto Luce, grazie ai quali possiamo finalmente uscire in sala dopo l'esordio al Torino Film Festival del 2010. Ma questi sono i tempi giusti: più passa il tempo e più la nostra realtà si adegua a quella immaginata, al punto che ormai ci sembra di vivere in un grosso disaster movie. L'idea di un film a più mani dedicato ad una città non è certo originale, ma è stato comunque importante realizzarlo per l'apporto che vi hanno dato autori giovani, spesso esordienti, che nel frattempo, nel corso di questi anni, hanno realizzato grandi cose, e quindi possiamo dire che la nostra è stata una scelta felice.

Quindi la committenza è stata politica. Eppure nel film il ruolo delle istituzioni è del tutto marginale.
Nicola Giuliano: La richiesta iniziale era quella di realizzare un documentario che risollevasse l'immagine della città, ma noi ci siamo subito rifiutati di prestarci a questa operazione. Non ci interessava edulcorare la realtà, quanto piuttosto mettere in luce la risorsa inestinguibile di questa città, che è quella della creatività e del talento. E' questo il senso di tutto il film, non abbiamo voluto lasciarci orientare nei contenuti per dare libertà al racconto e allo sguardo.

Paolo, a te è stato dato il compito di chiudere, e hai scelto di farlo con la figura della principessa di Napoli. Come mai?
Paolo Sorrentino: In realtà ho dovuto chiedere ad Angelo di trovarmi una principessa napoletana, perché io non ne conoscevo. Ho scelto questo aspetto perché, pur non conoscendo tutti i miei colleghi, ero certo che nessuno si sarebbe occupato di una principessa. In più in quel periodo stavo scrivendo un libro proprio su una principessa, inventata stavolta, e volevo quindi conoscerne una vera. Uno dei miei libri preferiti è Memorie di un uomo inutile, scritto per l'appunto da un nobile, e anche questo è stato un elemento che ha inciso sulla mia scelta.

Nel film manca completamente la retorica che vede Napoli come la città della pizza e del mandolino. E' stata una scelta voluta?
Angelo Curti: E' bella questa reazione, perché fa capire come arrivi il messaggio che la sostanza sta aldilà delle convenzioni, anche se spesso si esprime attraverso stereotipi. C'è stata senz'altro una volontà editoriale nella selezione dei frammenti. Però è anche vero che l'episodio dedicato al neoborbonico, al maiale, e anche quello sulle ragazze al casting sono venuti a posteriori, dopo che gli autori erano stati selezionati sulla base di altre proposte. Napoli è una città in continuo fermento, che offre tante opportunità. Paolo ha potuto incontrare una nobildonna ad esempio, e non una improvvisata, ma che nell'ora e mezza in cui le abbiamo parlato ci ha descritto i suoi avi del tempo del Sacro Romano Impero: questo per dire che c'è un lavoro che va in profondità, oltre la superficie delle immagini.

Paolo, come commenti il Leone d'Oro alla Carriera per Francesco Rosi?
Paolo Sorrentino: Sono molto felice del Leone d'Oro, ma sarei ancora più felice se Francesco Rosi facesse un altro film. Io credo che non ne faccia non perché non ne voglia fare; c'è bisogno di una mobilitazione per riportarlo al cinema.

Spesso i film sulle città seguono la linea dell'"I love": Paris, Roma e così via. Avete mai immaginato di dare una virata di questo genere al film?
Paolo Sorrentino: Io so solo dire che da spettatore, perché avendo girato solo un ventiquattresimo di film io l'ho vissuto come tale, il titolo sembra fuorviante, soprattutto per la questione Napoli. Questo è un film non esaustivo, ma comunque molto completo sull'Italia, e Napoli si presta a rappresentarla per via del forte aspetto recitativo che la contraddistingue, ma qui si parla di pregi e difetti di tutti gli italiani, non solo dei napoletani. Qui non vedo una Napoli in sé e per sé, né tantomeno una storia alla "Napoli je t'aime": in un certo senso una storia d'amore c'è, nel modo in cui ci si relaziona con la città. Questi sono ventiquattro atti d'amore, un amore a volte un po' critico, perché l'amore non è sempre una passeggiata spensierata.
Nicola Giuliano: L'idea della committenza era un po' alla "Napoli je t'aime", ma la nostra risposta è stata quella che, di fronte a delle responsabilità politiche così gravi, non era il caso di raccontare qualcosa che non c'era. Poi magari lo si potrà fare, dopo trent'anni di buon governo, ma allora stavamo vivendo l'illusione tradita dell'era Bassolino. Non dico che ci aspettassimo che da un giorno all'altro tutto fosse messo a posto, ma che almeno il domani fosse migliore di ieri, mentre ci siamo trovati a fare l'amara considerazione che il domani non poteva che essere peggiore. Riempire un film degli incantevoli scorci della città, della sua musica, della sua gastronomia, in quel momento non ci sembrava giusto.

Siete soddisfatti del risultato, specialmente in relazione al titolo Napoli 24?
Vincenzo Cavalli: All'inizio nel bando di concorso era indicato come dovessimo dedicare i nostri tre minuti di girato a una determinata ora del giorno, e probabilmente è questo che ha generato l'equivoco. Di questo film non mi piace la superficialità, ma mi piace moltissimo la schizofrenia, questo creare una mappa che metta in comunicazione delle realtà scollegate. Io nel 2006 ho realizzato un documentario intitolato 24 ore a Napoli Est, per il quale avevo ripreso dalle otto del mattino fino alle otto di sera, e in quel caso forse l'indicazione temporale aveva più senso. Ma è anche vero che in questo caso il 24 potrebbe riferirsi ai 24 punti di vista da cui è descritta Napoli.
Paolo Sorrentino: Io non credo che l'accostamento di questi frammenti sia casuale, c'è un linguaggio riscritto a livello di montaggio che è sia cromatico che di tematiche, al punto che io stesso non sapevo dove si sarebbe inserito il mio tassello. E' stato bello vedere come questo film fluisce armonicamente.
Pietro Marcello: Per me bisogna riflettere sul fatto che questo è un film collettivo: da sempre, i film collettivi più riusciti sono quelli politici, e qui una grande importanza ha rivestito il montatore nel processo di editing. Sono molto pochi i film collettivi riusciti nell'intera storia del cinema, perché sono molto difficili da gestire.

Paolo, se dovessi rigirare ora, sceglieresti la stessa tematica? E Nicola, secondo te oggi i napoletani cosa dicono, che domani sarà meglio o peggio di ieri?
Paolo Sorrentino: Per Nicola rispondo io perché, pessimista com'è, so già che risponderebbe che domani sarà peggiore. Io credo che questo film sia perfettamente riuscito e che non sia affatto superficiale, ed è riuscito proprio nel suo cercare un'identità senza trovarla. E' una sintesi dell'essere napoletano, ma soprattutto dell'essere italiano: a Napoli si guarda prima e meglio, ma la mancanza di un'identità è evidente in tutti gli italiani. In più credo che il film sia ancora più riuscito proprio perché collettivo, per la sua disorganizzazione dettata dalla presenza di tante teste.
Angelo Curti: Io non lo definirei un film collettivo, quanto un film plurale, in cui ogni identità si afferma senza sopraffarsi. Napoli non pensa né che domani sarà migliore né che sarà peggiore: Napoli pensa, come il ristoratore che si vede nel film, "chissà se domani ci sveglieremo". Io credo che l'arte faccia politica, ma venga ancora prima di essa: non dimentichiamoci che non è stato il Risorgimento la premessa della rinascita dell'arte napoletana, ma al contrario ne è stato una conseguenza. La speranza è quella che da un episodio come questo, fatto di creatività, possa nascere anche un cambiamento politico.

Come sarà gestita la distribuzione?
Roberto Cicutto: Vorrei ribadire ancora una volta la difficoltà di chi fa cinema in Italia. Molto spesso mi sento dire: com'è bello questo film, perché non lo comprate? Si, è vero, magari un film è molto bello, ma ci sarà qualcuno disposto a farlo uscire? Qui la difficoltà è stata doppia, perché si trattava di autori giovani che per di più hanno realizzato dei corti. Abbiamo trovato una formula per l'uscita che prevede la presenza in sale tradizionali nelle grandi città come Roma, Milano, Napoli, Firenze e Torino, e poi abbiamo scelto un percorso più in profondità, spesso con la presenza degli autori, per le platee più piccole.
Nicola Giuliano: Quest'anno siamo di fronte a dei segnali che vanno letti. Su 155 film prodotti in Italia, 60 avevano un budget inferiore a 200000 euro. Questo è espressione della difficoltà che incontra un prodotto di qualità nel raggiungere il pubblico, e significa che è il pubblico che deve andare a cercare il film diverso dal solito, da quello distribuito in 900 copie di cui magari 5 nello stesso multisala. Bisogna risvegliare questo sentimento che ancora c'è, questa voglia di qualcosa di diverso, che deve essere sostenuta da un lavoro capillare, accompagnando il film durante tutto il suo percorso. Il nostro, quindi, è un impegno che inizia ora ma che può dare risultati anche nel lungo periodo: non possiamo semplicemente assistere.

Paolo, l'attrezzatura low budget utilizzata è stata una tua scelta o lo hai fatto più che altro per solidarietà verso gli altri autori?
Paolo Sorrentino: Io non so neanche con cosa ho girato, ho usato la telecamera che mi hanno messo a disposizione, che credo fosse la stessa di tutti gli altri. Io credo che il risultato sia comunque molto buono dal punto di vista formale: so che non è la pellicola, ma non penso che il risultato sia modesto, anzi in questo modo è ancora più congruo al film.

Come mai si è scelto di raccontare la storia delle donne che protestavano davanti al cimitero, invece di porre l'accento sul culto dei morti che è così radicato in città?
Daria D'Antonio: Ho girato quell'episodio nel pieno dell'emergenza rifiuti, e ho scelto di seguire questa manifestazione parallela che riguardava una delibera che a Napoli non si riesce ad attuare mentre in tutto il resto d'Europa sì, e non se ne capisce il motivo. Il culto dei morti era un argomento già ampiamente affrontato, mentre a me incuriosiva la necessità per queste donne di avere delle certezze su quello che sarà dopo la vita anche in un momento come quello contingente, la loro preoccupazione per l'organizzazione del dopo quando già soltanto vivere era così complicato.

Credete che questo modello sia esportabile anche in altre città?
Nicola Giuliano: Io credo di si, perché racconta il bisogno di qualcosa di più. Io insegno al D.A.M.S. a Bologna, che è una città ricettiva, con tanta voglia di fare, ma dalla quale non viene comunque mai fuori quell'insieme di istanze che potrebbe fare la differenza. Grazie alla democrazia del mezzo digitale è possibile recuperare questa forza, anche perché costa pochissimo, e forse avrebbe senso pensare questo progetto anche come un modo per raccontare l'intero Paese.

Napoli è cambiata dalle ultime elezioni?
Nicola Giuliano: Negli ultimi dieci anni ci sono stati 120mila cambi di residenza, e questo significa che è in corso un esodo, perché non c'è lavoro, non c'è sviluppo. Io stesso me ne sono andato, nessuno dei miei amici d'infanzia vive più a Napoli, e questo è un segnale: da giovani pensavamo di poter fare film a Napoli e poi non è andata così; pensavamo fosse una decisione individuale, ma è una scelta che ha convolto tutti. La nuova gestione andrà giudicata nel tempo, per adesso vedo dei piccoli segnali, per esempio nella gestione della viabilità, o dei rifiuti. Questa politica dei piccoli passi è stata sempre negata da chi, in passato, aveva sbandierato il cambiamento, ma quello che si deve prendere davvero in considerazione sono questi piccoli obiettivi, a partire dalla riaffermazione della legalità e del senso di appartenenza.
Angelo Curti: Napoli è l'Italia, è il laboratorio del peggio a livello mondiale, specie per chi come me crede nella concezione peggiorativa della storia. L'elezione di De Magistris non è stata come quella di Pisapia a Milano: noi lo vediamo come uno che ha vinto contro tutto e tutti, come un Masaniello, come un Messia. Quello che mi piace di lui è che ha il coraggio di dire certe cose: il cambiamento deve essere fatto attraverso scelte importanti, riaffermando il primato della politica rispetto alla finanza. In un film di Tarkovskij si dice "Qualcuno deve gridare che costruiremo le piramidi, anche se poi non le costruiremo": questo per dire che bisogna porsi degli obiettivi, e De Magistris se ne pone. Certo, nella pratica è tutto più complicato, ma avere i giusti modelli serve sempre.