Recensione Ballkan Bazar (2010)

Con il cuore e lo sguardo rivolto alla sua terra d'origine, Edmond Budina intesse un'altra avventura dalla forte collocazione territoriale ma che, a differenza di Lettera al vento, si fa portavoce di un'ironia innocentemente cialtrona.

Linguaggi di confine

Chi ha detto che i contenziosi territoriali e culturali debbano essere risolti esclusivamente a colpi di mitra? In una zona dall'apparente irrilevanza politica situata tra il limitare dell'Albania del sud e la Grecia del nord, due etnie hanno ideato un'inedita tattica di "invasione" e "resistenza" pacifica con l'ignaro supporto dei loro antenati. In questo modo i greci ortodossi, grazie ad un misterioso traffico di bare d'epoca da riposizionare strategicamente sotto lapidi dall'iscrizione ellenica, avanzano silenziosamente verso la conquista dell'Epiro del nord. All'interno di un contendere politico/culturale dove linguaggi, religioni e diverse credenze popolari convivono per poi fronteggiarsi in un'animata contrapposizione a metà strada tra commedia e tragedia, Julie e sua figlia Orsola aggiungono il punto di vista un po' frastornato dello straniero. Arrivate a Tirana per rintracciare la bara del nonno, smarrita e poi spedita per errore in Albania, le due donne si trovano a percorrere le strade dissestate e ricche d'umanità di un paese tanto sconosciuto quanto temuto. Ma, sotto la scaltra guida di un giornalista locale alla ricerca dello scoop in grado di svelare il traffico di morti, madre e figlia scoprono come dietro i preconcetti si nasconda una realtà più semplice e rassicurante capace di farsi beffa di qualsiasi dottrina o riconoscimento nazionale.


Edmond Budina è un artista dalla doppia natura. Membro della più raffinata e rispettata intelligentia nella sua Albania, in Italia veste niente meno che il ruolo d'operaio presso una ditta di Bassano del Grappa. Per questo motivo, probabilmente, il regista di Lettere al vento (2005) ed attore per Ken Loach in Tickets è costretto ad un'attività cinematografica piuttosto circoscritta. Una scelta che, però, non sembra limitare minimamente la visione e la sensibilità di un uomo capace di piegare con uguale naturalezza gli schemi della tragedia e della farsa alle diverse necessità narrative. Così, con il cuore e lo sguardo rivolto alla sua terra d'origine, Budina intesse un'altra avventura dalla forte collocazione territoriale ma che, a differenza del suo primo lungometraggio dai toni più gravi, si fa portavoce di un'ironia innocentemente cialtrona.

In Ballkan Bazar si armonizzano con naturalezza morte, vita, orgoglio e amore; elementi che, utilizzati per il raggiungimento di uno scopo più aulico, compongo un piccolo gioiello dove il ritmo allegro ma non troppo conduce lo spettatore in un agevole percorso di scoperta di sè e dell'altro. In questo modo, prendendo in prestito uno degli argomenti più sensibili per la comunità albanese come la pretesa territoriale da parte della popolazione greca, il regista orchestra un viaggio all'interno di un luogo vicino e al tempo stesso profondamente sconosciuto per cercare di ridimensionare confini e bandiere ad un particolare di scarsa rilevanza.

Nell'organizzazione di questo tour umano e territoriale un ruolo fondamentale per determinare la riuscita dell'illusione cinematografica è giocato dall'inserimento narrativo dello straniero. La francese Catherine Wilkening e l'italiana Veronica Gentili rappresentano allo stesso tempo l'elemento dissonante e quello rappacificatore, il diverso e l'uguale, l'intruso e l'ospite. Una dualità continua il cui scopo non è quello di livellare le dissonanze linguistiche e non, ma soprattutto quello di amplificarle per rintracciare proprio nelle caratteristiche più peculiari la motivazione per ascoltarsi e comprendersi.

Così, in un zona rurale di confine composta da un'umanità dura e all'apparenza disposta a mercanteggiare ogni resto della propria storia famigliare, Budina costruisce la sua teoria sulla comunicazione oltre la parola e il suo significato, affidandosi esclusivamente ad una babilonica coesistenza e all'universalità dell'innamoramento. Sopravvalutata e mal utilizzata come affermazione di un'identità nazionale sorda ad altre sonorità, la lingua in questo caso cade dal piedistallo, si fa materiale duttile e in un goffo gioco di traduzione infonde fiducia e accettazione. Un concetto, questo, che non brilla forse per originalità ma che si immerge così onestamente nella realtà raccontata da essere accolta come una verità incontestabile a cui piegarsi con un certo sollievo.

Movieplayer.it

4.0/5