Recensione La quinta stagione (2012)

Opera ostica ma affascinante, ricca di simbolismi complessi, La cinquième saison rompe gli schemi del cinema narrativo (anche d'autore) offrendo un'esperienza che lo avvicina alle arti visive in senso lato.

La stagione della fine

Siamo nelle Ardenne, in una remota comunità montana. Gli abitanti si preparano, come ogni anno, a dare l'addio all'inverno con un rito secolare; un rogo catartico che brucerà simbolicamente la stagione in corso e darà il benvenuto alla primavera. Per qualche motivo, però, il falò rifiuta di accendersi. L'inverno non vuole lasciare il villaggio: tutto intorno, la natura resta morta, il cielo grigio, gli alberi brulli. Il bestiame non dà più latte, i campi sono spogli, nel paese inizia a serpeggiare la fame. Thomas ed Alice, due adolescenti, cercano di combattere il disfacimento in corso con l'amore e la passione, ma anche loro dovranno infine arrendersi a un inaridimento che sembra aver toccato nel profondo l'animo umano. L'apicoltore Pol e suo figlio disabile Octave, giunti nel villaggio durante i falliti festeggiamenti, finiranno per essere coinvolti pesantemente nella tragedia in corso; i due, forestieri, diverranno i capri espiatori di un'umanità che sta forse soccombendo all'inesorabile ribellione della natura.


Terzo lungometraggio dei registi belgi Peter Brosens e Jessica Woodworth, e da questi considerato il terzo capitolo di una trilogia iniziata coi precedenti Khadak e Altiplano, La cinquième saison è un film enigmatico, dal potente valore simbolico, caratterizzato da un passo avvolgente ed ipnotico. I registi hanno dichiarato di aver girato il film per offrire, dopo le descrizioni delle realtà della Mongolia e del Perù delle due precedenti opere, uno sguardo analogamente antropologico e pessimista su una comunità a loro più vicina, quella di un isolato villaggio fiammingo. E' abbastanza inutile stare a cercare in La cinquième saison uno sviluppo narrativo lineare e coerente: il film funziona come un accumulo di singole immagini, tutte di grande suggestione, o meglio come una successione organizzata di quadri che vanno a comporre un affresco più grande, nella cui totalità va probabilmente ricercato il senso dell'opera. Secondo i due registi, girare un film è come comporre un'opera musicale, la cui essenza è da ricercare nelle sensazioni trasmesse più che nella mediazione della razionalità: è proprio tenendo presente questa concezione, radicalmente anti-narrativa, del cinema, che va approcciata un'opera come questa.

Vengono in mente il surrealismo e Luis Buñuel, nella successione di immagini che paiono fuoriuscire direttamente dall'inconscio, nella trasfigurazione della realtà in luoghi ed elementi "altri" (i campi spogli e morenti, gli animali che invadono il territorio dell'uomo mescolandosi ad esso) ma le suggestioni a cui Brossens e Woodworth si ispirano sono molteplici: la pittura fiamminga, la musica classica e quella sperimentale moderna, i film di Theo Angelopoulos e certo documentarismo sperimentale europeo. Il tutto è portato avanti con un'intransigenza estetica che non concede nulla a livello narrativo o empatico (la freddezza è assoluta e ricercata, e la distanza da personaggi e vicende sempre netta) ma che non nega affatto il piacere della visione: ciò che è richiesto allo spettatore è un approccio diverso alla materia cinematografica, che si allontani dalla concezione del film come racconto per immagini e si avvicini a quella di arte visiva in senso lato. Per essere goduto appieno, La cinquième saison, opera fredda e cerebrale, necessita anche di un abbandono emotivo alla suggestione delle sue immagini.
E' tuttavia inevitabile ricercare nel tutto un filo conduttore, una qualche chiave di lettura nelle componenti simboliche che i due registi hanno posto nel film in modo evidentemente pensato e non casuale: la risposta più superficiale potrebbe essere quella di un approccio alla realtà insieme antropologico ed ecologista, che rifletta sull'eterna dialettica tra natura e cultura mostrando una ribellione della prima, un suo riappropriarsi del territorio, un tentativo di scacciare, definitivamente, il "parassita" umano dai propri domini. Ma c'è sicuramente molto di più, nella descrizione di riti ancestrali pensati come propiziatori, a cui tuttavia la natura si mostra indifferente, nell'etica comunitaria e pre-industriale che, scevra qui da qualsiasi visione distorta e idilliaca, si salda perfettamente con l'egoismo, l'atomizzazione e la dissoluzione dei legami sociali, tutti elementi tipici della modernità. E c'è uno sguardo che, malgrado sembri mostrare un'apocalisse in atto, una dissoluzione ormai incombente, non si rivela del tutto pessimista nei confronti dell'uomo, come testimonia una delle ultime sequenze, che coinvolge due dei personaggi chiave. Suggestioni, visioni e simboli in cui c'è sicuramente molto altro ancora, e in cui comunque ogni spettatore può ricercare una sua lettura, un suo personale percorso interpretativo: è la forza di un cinema che rompe gli schemi (anche quelli più prettamente "d'autore") e inevitabilmente spiazza, ma sa offrire anche un modello di esperienza non facile da rintracciare altrove.

Movieplayer.it

4.0/5