Recensione 12 (2007)

Girato scena per scena, mantenendo durante le riprese la progressione logica dello sviluppo narrativo in virtù di una lunga fase preparatoria di prove con gli attori, 12 è un serrato dramma psicologico da camera.

La Russia sotto processo

C'è il riflesso della Russia contemporanea nella palestra scolastica dove dodici giurati di un processo sono chiamati a riunirsi per decidere della colpevolezza di un giovane ceceno (Apti Magamaev), accusato dell'omicidio di primo grado del padre adottivo, ex ufficiale di Spetsnaz, che l'aveva preso in custodia dopo che i genitori, suoi amici, erano stati uccisi nel corso delle operazioni in Cecenia. Il verdetto sembra essere una pura formalità: tutti sembrano voler tornare alle loro esistenze e ai propri impegni, senza perdere ulteriore tempo prezioso. Nessuno dubita della responsabilità del ragazzo nell'omicidio, tranne un unico giurato che costringerà gli altri a riflettere in maniera più approfondita sul caso.

L'incipit della storia non è affatto nuovo: 12, l'ultimo film del cineasta sovietico Nikita Mikhalkov, girato con la stesso cast con cui ha realizzato il seguito de Il sole ingannatore, è infatti il remake de La parola ai giurati, pellicola del 1957 con Henry Fonda nei panni del protagonista, che fruttò al regista Sidney Lumet l'Orso d'Oro al Festival di Berlino e tre nomination all'Oscar. Un film tratto, sin dall'originale, dal lavoro teatrale di Reginald Rose che Nikita Mikhalkov conosce bene, per averlo messo in scena presso l'Istituto Teatrale Schukin di Mosca.
Come nella pellicola americana, i dodici uomini, di eterogenea estrazione sociale e provenienza geografica, sono soprattutto personaggi scalfiti da differenti storie, ferite e rancori personali. Tra questi: un artista (lo stesso Nikita Mikhalkov) che ricopre l'incarico di presidente della giuria; l'amministratore delegato di una grossa azienda (Sergei Makovetsky), l'unico fin dall'inizio a schierarsi a favore dell'innocenza dell'imputato, e il cui voto di non colpevolezza costringerà gli altri a discutere per ore, rileggendo quanto avvenuto sotto una luce nuova. Suo aperto oppositore è un tassista (il bravissimo Sergei Garmash) dalle idee sfacciatamente nazionalistiche, che valuta l'intero popolo ceceno come selvaggio e malvagio a prescindere, attirandosi le antipatie di un anziano intellettuale ebreo (Valentin Gaft) e di un chirurgo originario del Caucaso (Sergei Gazarov), che mal sopporta le discriminazioni. Tra gli altri membri della giuria, un attore (Mikhail Yefremov); il produttore di una piccola emittente televisiva (Yuri Stoyanov), incline a cambiare parere in quanto altamente influenzabile; il gestore di un cimitero (Aleksei Gorbunov), un funzionario (Roman Madyanov), e un operaio della metropolitana (Aleksei Petrenko), che sembra in un primo momento concorde con le posizioni del tassista contro gli stranieri, che hanno mutato il volto di Mosca.

Girato scena per scena, mantenendo durante le riprese la progressione logica dello sviluppo narrativo in virtù di una lunga fase preparatoria di prove con gli attori, 12 è un serrato dramma psicologico da camera, interrotto da sequenze che inquadrano il ragazzo in prigione nell'attesa della decisione della giuria e dai flashback che ricostruiscono il passato del giovane accusato in Cecenia, quando assiste alla morte dei suoi genitori sotto il fuoco dei miliziani. Inserti narrativi che, in ultima istanza, differenzia il film dall'originale americano, trasportando l'azione e il senso de La parola ai giurati nell'attuale contesto sociale e politico del conflitto russo-ceceno. Ma non solo. La ricostruzione dei dettagli relativi all'assassinio dell'ufficiale e la formulazione di ipotesi alternative sull'identità del colpevole consentono ai singoli giurati di aprirsi reciprocamente a confessioni piuttosto intime, facendo conflagrare sia i fantasmi del proprio passato che il diffuso malcontento che si respira nella Russia di oggi.

Non si può escludere l'idea che Nikita Mikhalkov abbia voluto compiere con 12 un'operazione cinematografica furba e a sprazzi retorica, capace di strizzare l'occhio al pubblico festivaliero e non solo, grazie a uno script di partenza già convincente e appassionante come quello de La parola ai giurati, aggiornando la tematica di fondo: un argomento di grande attualità al quale il pubblico internazionale possa essere particolarmente sensibile, quale la situazione in Cecenia. È altrettanto vero, però, che la pellicola, vincitrice del Leone Speciale per l'insieme dell'opera alla 64esima edizione del Festival del cinema di Venezia, è un solido thriller dell'anima, attraversato da riflessioni sul libero arbitrio, sul cinismo e sull'indifferenza che dilaga nella società contemporanea, che sa mantenere alta l'attenzione dello spettatore per la sua non breve durata di 153 minuti, contando su di un cast d'eccezione, formato da attori bravissimi e convincenti, in grado di dare credibilità alle contraddizioni e alle sfaccettate facce della Russia del XXI secolo.