Recensione Buffalo Soldiers (2001)

Se tanto cinema ha raccontato l'orrore della guerra, l'insensatezza del conflitto, Jordan mostra come in tempo di pace sia ancora più incerto, scontornato e fuggevole il signoficato delle strutture militari.

La noia del soldato

Germania Ovest, 1989: Ray Elwood è un soldato di stanza in una base statunitense in suolo tedesco. Non è nell'esercito per convinzione, ma solo perché l'arruolamento era l'unica alternativa alla detenzione per furto d'auto. Un'alternativa sui generis, visto che anche in Germania Ray continua a fare i suoi comodi, comprando e vendendo prodotti al mercato nero, raffinando droga e fornendola agli spacciatori della base. Fatta la divisa un accessorio, la vita di Ray sembra perfetta, fino a quando nella base non arriva un nuovo sergente che deciderà di raddrizzare lui e i suoi compari. Ad ogni costo.

Scritto e diretto dall'australiano Gregor Jordan sulla base di un omonimo romanzo di Robert O'Connor, Buffalo Soldiers è un film dalla storia distributiva molto travagliata, e non solo per questa sua più che tardiva comparsa sul mercato italiano. Buffalo Soldiers avrebbe dovuto fare la sua apparizione nelle sale statunitensi poche settimane dopo gli attentati alle Torri Gemelle, ma il suo contenuto ben poco patriottico ne ha portato alla posticipazione e alla fine il film non ha mai trovato una collocazione ottimale o una giusta promozione, rifacendosi però sul mercato DVD, specie in Europa. È indubbio che l'America del post 11/9 non avrebbe potuto accettare facilmente un film come questo, che attraverso la chiave del grottesco spara a zero sulle strutture militari, raccontando un esercito senza più contatto con la realtà, corrotto, drogato, perso nella ricerca di un significato che non c'è più.

Sono tre principalmente le categorie di militari descritte dal film. Ci sono i ragazzi come Ray, che affollano la base, arruolatisi per necessità o per mancanza di alternative, che non sanno più perché sono lì o cosa significhi essere soldati. Ragazzi che giocano (letteralmente) alla guerra portando solo inconsapevole distruzione, che evadono dalla noia e dall'assenza di riferimenti attraverso la droga, che cercano di curare i propri interessi indipendentemente da quelli del corpo di cui fanno parte.
Ci sono poi gli alti ufficiali, di minore o maggiore intelligenza, la vecchia guardia. Personaggi come l'inetto colonnello interpretato da Ed Harris, personaggi che probabilmente erano stati in grado, nel passato, di riempire di significato divisa e disciplina marziale, ma che non sono più in grado d'incarnare e trasmettere i valori in cui credevano persi in quella che è diventata una professione come tutte le altre, dove quello che conta è il fare carriera. Infine ci sono quelli come lo spietato sergente incarnato da Scott Glen. I veri soldati. Gente che è nell'esercito perché ha la violenza, le armi, il conflitto nel sangue. Che ha una divisa per poter uccidere legalmente.

Non esiste salvezza nell'esercito dei Buffalo Soldiers. Fin dall'inizio Jordan ci mostra soldati che calpestano quella bandiera che dovrebbero difendere con onore. Uomini, ragazzi de-sensibilizzaati dal ricoprire un ruolo obsoleto, fuori contesto, avulso dal resto del mondo. Il mondo fuori le mura della base sta esplodendo, sta cambiando. Il muro di Berlino sta crollando. Ma nessuno se ne accorge. Rintanati in una base isola che li separa più mentalmente che psicologicamente dal mondo, i soldati non sanno nemmeno dove sia, Berlino, come non sanno nulla del mondo esterno.

Se tanto cinema ha raccontato l'orrore della guerra, l'insensatezza del conflitto, lo smarrimento di ragazzi costretti a combattere per qualcosa che non capivano, Jordan mostra come in tempo di pace sia ancora più incerto, scontornato e fuggevole il signoficato delle strutture militari, organizzazioni ripiegate su se stesse e incapaci di relazionarsi al resto del mondo. La stile di questo racconto, lo abbiamo detto, è un grottesco esasperato, a volte eccessivo, ma funzionale allo scopo che si è prefisso: Buffalo Soldiers è un film sicuramente imperfetto, ma pieno di vita e forse più ricercato di quello che può risultare ad una prima, superficiale visione.