La mafia uccide ma non solo d'estate. E Pif ne è Il testimone

Dopo il successo ottenuto con la trasmissione di MTV Pierfrancesco Diliberto firma il suo primo lungometraggio con una dichiarazione d'amore alla sua Palermo allo stesso tempo ironica e struggente.

_"E' da un mese che non riesco a dormire. Il pensiero di essere stato selezionato per una manifestazione che ho sempre considerato concreta mi mette ansia da prestazione." _Così Pierfrancesco Diliberto alias Pif, protagonista e autore della trasmissione di MTV Il Testimone, commenta la partecipazione del suo primo lungometraggio, scritto in collaborazione con Michele Astori e Marco Martani, al Festival di Torino. Prodotto da Rai Cinema e distribuito da 01 Distribution dal 28 novembre in poco più di 200 copie, La mafia uccide solo d'estate è un percorso insolito attraverso una Palermo meravigliosa e difficile, dove le vicende sentimentali di un ragazzino s'incrociano con i delitti della più temibile tra le organizzazioni criminali. Così, attraverso lo sguardo ingenuo ma acuto di Arturo, sullo schermo scorre una parte della storia recente del nostro paese tra cui l'omicidio del Generale Dalla Chiesa e la definitiva perdita d'innocenza dopo gli attentati di Capaci e Via D'Amelio. Tutto, però, raccontato attraverso lo stile ironico e fintamente approssimativo di Pif cui si è piegata anche la co-protagonista Cristiana Capotondi.

Pif, com'è nata l'idea di questo film che, unendo la commedia, il reportage giornalistico e il film d'autore, dimostra che si può raccontare la mafia in modo diverso? Pif: Non mi sono ispirato ad un film in particolare anche se, inconsciamente, assimiliamo immagini e suggestioni. Sono partito, invece, dal lavoro fatto con Il testimone, la trasmissione di Mtv, in cui più volte ho parlato della mafia partendo dalla mia passione per la briosce con il gelato e finendo con l'intervistare la figlia di una delle vittime. Nessuno si e mai lamentato delle modalità, quindi mi sono sentito libero di continuare su questo stile. Certo, sono fortunato perché il mio modo di raccontare funziona e, oltre a permettermi di pagare l'affitto, sembro arrivare ad una audience giovane. L'idea di questo film, però, nasce al mio arrivo a Milano dove ho ricevuto molte domande su Palermo. A forza di dare spiegazioni ho cominciato a documentarmi scoprendo altre particolarità evidenti. Se osserviamo i crimini di mafia, come le dichiarazioni di Andreotti, capisci che era tutto sotto i nostri occhi e non serviva un grande sforzo per comprendere l'evidenza dei fatti. Perché, allora, la gente non si è ribellata prima? Forse perché alcuni di loro erano collusi e preferivano lasciare le cose intatte. Altri, invece, rinnegavano la pericolosità della mafia creandosi degli alibi. Questa cosa in parte ci ha protetto fino al 1992, l'anno in cui, con la morte di Falcone e Borsellino, è definitivamente scoppiata la bolla in cui vivevamo.
Marco Martani: La parte più complessa di questo lavoro è stata, senza dubbio, integrare i toni della commedia e del dramma. Fondamentali sono stati una serie di atti e documentazioni ufficiali in cui vengono riportate le dichiarazioni di alcuni mafiosi. Perciò le battute esilaranti che abbiamo inserito non sono il prodotto geniale della nostra sceneggiatura, ma provengono dagli stessi protagonisti di quegli anni. E ascoltarle fa ridere e tremare di paura allo stesso tempo.
Michele Astori: Con Pif condivido il fatto di essere palermitano ma all'inizio del progetto mi sono chiesto se si poteva ridere di questi avvenimenti. A dire il vero eravamo preoccupati. Era un po' come scherzare sull'Olocausto. Poi, abbiamo pensato che un palermitano poteva e aveva anche il diritto di mostrare un aspetto diverso, che non era mai stato preso in considerazione fino a questo momento. Ossia come la piccola e grande borghesia abbia convissuto con l'organizzazione quasi involontariamente, ricordandosi della sua pericolosità solo quando il delitto la sfiora.

Nel film inserite alcuni filmati di repertorio all'interno del racconto. Come avete lavorato con le immagini del reale? Pif: Prima di tutto abbiamo inventato la vita di Arturo, ispirata alla mia infanzia, incastrandola con i fatti realmente accaduti. Spesso abbiamo usato quelle immagini storiche per dare al pubblico alcune informazioni come, ad esempio, il passare del tempo. Per ottenere questo risultato abbiamo trascorso molto tempo dentro gli archivi delle Teche Rai ed è stata un'esperienza incredibile. In particolare, l'emozione di vedere i funerali del Generale Dalla Chiesa ti fa comprendere tutto il dramma di quegli anni. L'unico timore, però, era minare tutto con la narrazione. Il fatto è che si parte sognando il risultato di Milk per poi dover fare i conti con i mezzi a nostra disposizione. Comunque, per rispettare lo stile ho scelto di girare alcune scene in beta con una telecamera dell'epoca presa in un museo. Anche quando il bambino entra al funerale di Dalla Chiesa ho tentato di riprodurre lo stesso effetto della ripresa televisiva anni ottanta.

Cosa speri che i ragazzi comprendano con la visione del film? Pif: La speranza è che tutto questo non debba accadere nuovamente. Credo, però, che il film possa essere molto utile per alcune persone del nord Italia incapaci di vedere la presenza e la pericolosità della mafia sul territorio. Oggi ci troviamo di fronte ad un fenomeno sicuramente meno potente rispetto al passato, ma proprio perché è stato indebolito bisogna continuare ad intervenire e lo stato non deve allentare la sua presenza. Ora l'attenzione è concentrata sulla camorra e si è perso di vista la mafia siciliana. Spero onestamente che la lotta alla criminalità organizzata continui ovunque.

Hai scelto di raccontare tutto con il tono della satira. Quanto è importante per poter attirare il pubblico? Pif : Indubbiamente così attiri più persone. Un ragazzino fa più fatica a rimanere concentrato su un film classico, mentre con questo stile lo incoraggi e, una volta caduto dentro, non se ne va. Certo, ci sono delle scene che attraggono l'attenzione e poi ti tirano un cazzotto in faccia. L'importante, però, è che la satira non offenda mai la tragedia.

Cristiana, cosa ti ha colpito di questo progetto? Cristiana Capotondi: La vicenda assume un connotato particolare perché parla del nostro paese, o almeno una parte di questo dal quale non si può prescindere se si vuole capire la nostra storia. Nel 1992 avevo dodici anni. Mi ricordo quel periodo per la tensione che sentivo nei miei genitori. Ad esempio, dopo la bomba a San Giovanni, si aveva la sensazione di non essere protetti e che lo Stato non fosse in grado di garantire nulla. Così, quando ho letto la sceneggiatura ho pensato di trovarmi di fronte all'idea migliore degli ultimi anni.