Recensione Amour (2012)

Intimo e sofferto, il film scritto e diretto da Haneke si concentra sui due protagonisti e li mette al centro della narrazione, ottenendo da loro due prove di grandissima intensità.

L'inevitabilità della fine

Georges ed Anne sono due musicisti ottantenni in pensione, che conducono una vita dignitosa in una casa elegante. Ne facciamo la conoscenza al rientro a casa dopo aver assistito al concerto di un ex allievo pianista, ma subito, quella notte stessa ed al mattino seguente, arrivano i primi segnali di qualcosa che non va: Anne si mette a sedere a letto e fissa nel vuoto, mentre durante la colazione ha un momento di blackout, al termine del quale minimizza e ritiene inutile interpellare il loro medico di fiducia. Sono momenti scioccanti nella loro semplicità, primi sintomi di qualcosa di più pericoloso: Anne ha un attacco, che paralizza la parte destra del corpo. Lo veniamo a sapere a cose fatte, vedendola rientrare a casa su una sedia a rotelle dopo le prime cure; un attacco che compromette la sua capacità di suonare, annullando di fatto quello che la definisce come persona. Un intervento non andato a buon fine precipita la situazione verso l'inevitabile, costringendo Georges a doversi occupare di Anne, prima da solo, poi con l'aiuto saltuario di una infermiera, cercando di mantenere la promessa fatta alla moglie di non farla ricoverare e lasciarle vivere gli ultimi scampoli di vita nella sua casa.


E' in sintesi il plot di base di Amour, l'ultimo lavoro di Michael Haneke, presentato in concorso alla 65ma edizionie del Festival di Cannes. Essenziale sin dal titolo, intimo e sofferto, il film scritto e diretto dal regista austriaco si concentra sui due protagonisti e li mette al centro della narrazione. Le sporadiche figure di contorno, le infermiere, il portiere, la visita dell'ex allievo, sono intrusioni occasionali nella sofferta intimità della coppia.
Le immagini di Haneke sono potenti e colpiscono nel profondo per la capacità di mettere in scena la sofferenza dei suoi protagonisti: campi fissi che scrutano la coppia, testimoniando impietosamente il degrado della malattia, o una camera che segue il lento vagare di Georges. L'uomo soffre per la moglie che vede sparire lentamente dallo sguardo della donna malata, ma anche per sè stesso, per una situazione che diventa ogni giorno più pesante ed al di sopra delle sue possibilità.

Una tragedia familiare che tutti i membri del cast sanno dipingere con intensità. E per un film che si regge principalmente sui due protagonisti, non stupisce che le loro interpretazioni risultino di così alto livello: Emmanuelle Riva lavora molto dal punto di vista fisico, per tratteggiare i sintomi sempre più evidenti della malattia, ma è con lo sguardo che comunica la desolazione del suo personaggio al cospetto della perdita di dignità della sua condizione; Jean-Louis Trintignant può invece lavorare per sottrazione, per mostrarci quella scintilla che poco per volta sparisce dagli occhi del suo Georges, mentre viene sopraffatto dal dolore e dall'inadeguatezza, dai dubbi e dalla paura, le sensazione che lo portano allo scontro con la figlia Eva, musicista anche lei ed interpretata dall'ugualmente brava Isabelle Huppert.
Si tratta di quei drammi che mettono alla prova le persone ed i rapporti tra loro, quello con la figlia, ma soprattutto l'amore tra i due coniugi, costretto a fronteggiare una fine inevitabile. Infatti non c'è mai speranza in Amour. Haneke ce lo dice fin dall'incipit, un frammento del futuro che attende i protagonisti, che prepara gli spettatori a quanto vedranno, che definisce il tono del film e che, se possibile, si rileverà ancora peggiore di quanto apparisse.

Movieplayer.it

4.0/5