Recensione Sopra e sotto il ponte (2005)

Bassetti vorrebbe affondare nel sociale, porne in evidenza le contraddizioni, ma si limita a farci un giro in superficie, procedendo per coppie oppositive: ricchi/poveri, monologhi/silenzi, genitori sbagliati/figli ribelli, razzisti estremisti/tolleranti caritatevoli.

L'età della pietra

Nel 1995 Alberto Bassetti scriveva un testo per il teatro, insignito del Premio Giuseppe Fava, nel quale si parlava di due generazioni a confronto e di sassi lanciati contro le auto in corsa. I fatti tragici del cavalcavia maledetto di Tortona non erano ancora stati consumati. Oggi quel testo viene adattato per il cinema, sceneggiato e diretto dallo stesso Bassetti, al suo debutto dietro la macchina da presa, che non può non tener conto di quello che nel frattempo è successo. Chi erano quei ragazzi che per gioco hanno spezzato la vita di un essere umano senza colpe? La risposta è nei titoli dei quotidiani: adolescenti annoiati e desiderosi di una fama che li consegni ai media con toni indimenticabili. Ma chi sono i loro emuli, quei ragazzini pronti a fare dell'imbecillità una moda, che, per un motivo o per l'altro, riprendono a far piovere pietra dal cielo? Sopra e sotto il ponte parte proprio da qui, da due fidanzatini adolescenti, Alessandro e Deborah, appollaiati su un cavalcavia romano mentre tengono stretti nelle loro mani enormi sassi pronti ad essere lanciati di sotto.

Il film torna indietro nella vita dei due ragazzini persi tra cielo e poesia, per raccontare i mesi che precedono il folle gesto che stanno per mettere in pratica (o forse no) e provare a spiegarne i perché. Si scopre allora un universo d'incomunicabilità, un gap incolmabile tra genitori e figli, fatto di lunghi monologhi dei primi, che spaziano dalla virilità maschia da ostentare costantemente ai sacrifici tra le lenzuola per il sostentamento della famiglia, e di silenzi dei secondi, costretti ad ascoltare, ma senza essere ascoltati, lontanissimi dal modo di pensare e dagli insegnamenti degli adulti. Il racconto di Bassetti è uno squarcio pieno d'amarezza sulla nostra società, nel quale però tutto è esasperato, la comunicazione è un fallimento e le colpe vengono fatte ricadere essenzialmente sui genitori e, soprattutto, su una televisione dittatrice che crea sogni piccoli, piccoli, senz'anima, cotti e mangiati. Anche il personaggio più positivo è destinato ad essere travolto dagli eventi e a lasciarsi sconfiggere da una vita che non capisce. Alessandro, il giovane protagonista interpretato da quel Leonardo De Angelis che da bambino ha dato voce al maialino Babe e a Casper, è un adolescente sui generis rispetto a quelli soliti del recente cinema italiano, ma anche rispetto a buona parte di quelli reali, un cinefilo che dorme sotto le locandine di Taxi driver e Luci della città, un sognatore introverso che alla televisione preferisce i libri di Hesse, Vian, Pasolini e che passa i suoi pomeriggi in luoghi lambiti dal traffico, a chiedersi dove stiano andando tutte quelle macchine. Sarà proprio lui ad impugnare uno di quei sassi da lanciare, avendo come bersaglio prefissato il suo stesso padre.

Le vicende del film si svolgono tra la Roma delle periferie, quella dominata da palazzoni e antenne paraboliche, e la Roma ricca, ma sia per i figli dell'una che dell'altra gli abiti indossati sembrano quelli sbagliati. Alessandro, in rivolta contro un padre cinico, razzista ed individualista, disprezza l'oro in cui naviga ed è affascinato da luoghi e persone ai margini, come Aziz, il suo amico musicista di colore che gli altri si limitano a scansare, mentre Deborah e suo fratello, lo strafottente Valerio, aspettano che successo e denaro caschino un giorno dal cielo, abbagliati come sono dai modelli televisivi, e li portino via dalla mediocrità dei luoghi che abitano. Bassetti vorrebbe affondare nel sociale, porne in evidenza le contraddizioni, ma si limita a farci un giro in superficie, procedendo per coppie oppositive: ricchi/poveri, monologhi/silenzi, genitori sbagliati/figli ribelli, razzisti estremisti/tolleranti caritatevoli. I suoi personaggi sono tutti caricati, confinati in microcosmi intimi ed imperfetti, mentre di amici, scuola, lavori "normali" non v'è traccia. La regia è naturalmente acerba, caratterizzata da alcuni inserti surreali francamente evitabili, il montaggio ricorda quello di Texas di Fausto Paravidino, altro autore teatrale che ha esordito al cinema in questa stagione. Gli intenti sono buoni, me le idee originali poche e le parole davvero troppe.