Recensione La sorgente del fiume (2004)

La visione di un film come questo è talmente impegnativa da farsi a volte scoraggiante, ma il cinema di Angelopoulos è un'esperienza che un amante della Settima Arte si porta con sé, nel suo bagaglio di spettatore, per sempre.

Il vero cinema d'autore

La sorgente del fiume, ultima opera di Theo Angelopoulos, distribuita in Italia dall'Istituto Luce e passata per Berlino 2004, firma il ritorno del regista greco alle tematiche più vicine alla sua terra, con uno struggente e tragico racconto di un amore duro e impossibile, attraverso gli occhi di un uomo e una donna in eterno bilico tra vita e oblio. Tutti gli elementi più tipici del cinema di Angelopoulos (la ricerca formale, il peso della storia, la teatralità e la critica al potere) sono presenti in questa opera, che utilizza la storia di un amore per parlare della sua terra natia e del buio periodo che va da Odessa nel 1919 alla guerra civile del 1949, passando per la crisi economica e la guerra mondiale. Lo sguardo del regista sul mondo è filtrato dagli occhi di una comunità di musicanti eversivi e si inserisce in piena coerenza nelle figure biografiche tipiche del suo cinema. "Apicoltori, cineasti, musicisti: è il mondo che conosco io, forse non è il più rappresentativo, ma è un mondo affascinante e vulnerabile e mi permette di parlare del processo creativo, necessità per me insopprimibile", sono le esemplificative parole del regista in conferenza stampa.

Personalità affascinante e figura centrale di un certo cinema "autoriale" senza compromessi, Angelopoulos ci omaggia con un'opera cruda, tragica, complessa, spesso di difficile fruizione, ricca di soluzioni di una bellezza mozzafiato ma anche di momenti un po' ossessivi, specie quando la ricerca formale del suo cinema perde valore contenutistico e si fa troppo autoreferenziale. Eppure, se la visione di un film come questo, per le scelte adottate, per i contenuti e per la lunghezza, è talmente impegnativa da farsi a volte scoraggiante, il suo cinema (per alcuni superato, per altri ancora di salvataggio, prima della morte annunciata della settima arte), ha il potere di rimanerti addosso come un maglione bagnato. E' un'esperienza che un amante del cinema si porta con sé, nel suo bagaglio di spettatore, per sempre, anche se di sovente contornata da una sensazione di oppressione e di ricerca di un'evasione che si avverte dal frenetico e sofferente linguaggio del corpo del pubblico in sala, affascinato ma angosciato. In questo senso, che sia o no il miglior Angelopoulos, il suo è cinema d'autore nel senso più inequivocabile del termine. Cinema d'autore classico, lontano anni luce da ogni deriva minimalista, alla ricerca della storia, della realtà, del dovere politico, dell'urgenza rappresentativa e sorretto da un rigore stilistico puro e da una forza visiva innegabile.

Un cinema, dunque, che cerca Sergei M. Eisenstein e Michelangelo Antonioni, ma anche l'Angelopulos stesso, inarrivabile, di La recita, che ama l'Orson Welles de L'infernale Quinlan, che si nutre della letteratura di Joyce e delle teorie sullo "straniamento" di Brecht. Un cinema unico per quella che è l'attuale idea di cinema, che mette al centro del suo progetto il piano sequenza (tema portante se non unico della conferenza stampa seguita alla proiezione) e che estremizza questa tecnica fino al massimo livello. Una sperimentazione che, per dirla con le parole dello storico del cinema Elio Giralda: "rappresenta un esercizio stilistico portato alle estreme conseguenze come labirinto temporale altamente simbolico e come necessità formale in un cinema che da Greenway a Sokurov cerca di rappresentare la storia del 900. Una tecnica che, per quanto caricata di valori simbolici dalle teorie del montaggio russo, è comunque uno strumento espressivo che, nel cinema del regista greco, ha, nelle sue stesse parole: "un valore di contrapposizione al cinema moderno e alla sua repentina caduticità, in modo da fornire una memoria collettiva che travalichi il singolo individuo".