Recensione Ballata dell'odio e dell'amore (2010)

Cineasta originale e sofisticato, de la Iglesia costruisce il suo film più bello sulle ceneri del suo passato e di quarant'anni di storia spagnola, un'opera molto personale che mette in scena i patimenti intimi e al contempo i singhiozzi nichilisti di un artista di straordinaria inventiva in preda ad un rigurgito emotivo convulso e incontrollabile, dannatamente liberatorio.

Il circo della vita ai tempi del regime

Infelicità, insofferenza, rabbia, rimpianto, incredulità, nostalgia nei confronti di un passato meraviglioso e triste che si è insinuato nell'anima e nel corpo sino nelle ossa, scene talvolta confuse e assurde che racchiudono un profondo malessere, quasi un incubo ad occhi aperti. Tutto questo si respira nel nuovo incredibile film di Alex de la Iglesia, uno dei registi più talentuosi, ironici e visionari del cinema contemporaneo che per la sua prima volta in concorso al festival di Venezia confeziona un film che lascia i brividi addosso, un dramma storico-sentimentale che usa metaforicamente l'assurdità e l'allegoria del mondo circense per raccontare la sua infanzia, il suo paese, un momento storico buio e insensato per la Spagna in cui la realtà somigliava più a un sogno confuso di cui non si ricordano i particolari.
Ballata dell'odio e dell'amore è un gioiello accecante e ammaliante, un carosello triste e insieme grottesco di immagini e sentimenti, una fiaba dal sapore agrodolce che attinge a Il gobbo di Notre Dame e a La Bella e la Bestia, confezionata con rara maestria dal regista de La comunidad - Intrigo all'ultimo piano e ambientata nella Spagna degli anni '70, durante gli ultimi giorni del regime franchista.


Madrid, 1937. Il Paese è in piena guerra civile e i miliziani girano per il paese cercando di reclutare quanti più uomini possibili per fronteggiare i repubblicani. Dopo aver fatto irruzione in un circo pieno di bambini durante lo spettacolo dei clown, i miliziani catturano a forza l'uomo vestito da pagliaccio allegro e lo costringono a combattere con il costume di scena indosso e un machete in mano. Dopo aver massacrato da solo un intero plotone di soldati, l'uomo viene arrestato sotto gli occhi del figlioletto e condotto ai lavori forzati, dove verrà barbaramente ucciso dagli uomini di Franco. La storia si sposta nel 1973, quando dopo un'infanzia triste e un'adolescenza da emarginato Javier, figlio del pagliaccio allegro, decide di seguire le orme del padre e di diventare un clown, un pagliaccio triste però, non di quelli che fanno ridere i bambini, anche perchè i suoi occhi hanno visto troppe tragedie per riuscire a sorridere. Assunto da una piccola compagnia circense di Madrid il corpulento ragazzo si innamora della donna sbagliata, la splendida trapezista Natalia, compagna sottomessa e maltrattata del suo datore di lavoro, il pagliaccio allegro Sergio, primadonna del circo. Tra i due inizia una rivalità professionale e amorosa che li condurrà a breve in una guerra all'ultimo sangue, un duello efferato che condurrà i due joker ad una deformità psicofisica, ad una putrefazione del corpo e dell'anima e infine alla follia.

Cineasta originale e sofisticato, de la Iglesia costruisce il suo film più bello sulle ceneri del suo passato e di quarant'anni di storia spagnola, un'opera molto personale che mette in scena i patimenti intimi e al contempo i singhiozzi nichilisti di un artista di straordinaria inventiva in preda ad un rigurgito emotivo convulso e incontrollabile, dannatamente liberatorio.
Il circo come riflesso deturpato del mondo contemporaneo, mosso da pulsioni irrefrenabili e competizioni, il circo come metafora di un paese che ha alle spalle una storia maledetta e tragica, un paese in cui spesso l'orrore e l'ironia si fondono naturalmente in un un'unica dimensione allegorica, e infine, il circo usato come metafora dell'amore, un sentimento paragonabile a quello dei professionisti da baraccone nei confronti del pericolo e della vita raminga, a volte insano e crudele che nei casi più estremi può condurre alla morte.

Una riflessione sulla guerra, sul desiderio e sulla morte, messa su pellicola da de la Iglesia con il tocco inconfondibile dell'appassionato di fumetti e una strizzata d'occhio alla cultura pop che molto ricorda i capolavori di Tim Burton.
L'applaudito regista di Bilbao, creatore di lavori sempre originali e sofisticati, gioca sugli equilibri talvolta precari tra ironia e violenza, tra tenerezza e repulsione, tra serio e faceto, tra sacro e profano aiutandosi nella narrazione con immagini di repertorio e una maniacale ricostruzione ambientale.
Divertente e appassionato, Ballata dell'odio e dell'amore è visivamente carico ma mai stucchevole, è un freak show folle e grottesco che rimarrà nella storia del cinema spagnolo e della Mostra di Venezia.

Movieplayer.it

4.0/5