I Manetti che fanno Paura

I due simpatici registi, tra i rappresentanti principali del nostro cinema di genere, hanno presentato in conferenza stampa il loro Paura, in cui si sono cimentati per la prima volta con l'horror.

E' la volta dell'horror, per i fratelli Manetti. Era quasi inevitabile che i due simpatici cineasti, tra i principali rappresentanti del cinema di genere nel nostro paese, si cimentassero prima o poi con l'orrore: un genere che nella sua declinazione italica ha una lunga e gloriosa tradizione, ancorché rimasta in ombra negli ultimi decenni. Paura è un vero e proprio horror, senza contaminazioni, senza sperimentalismi, senza ambiguità. Sano cinema di paura, debitore di una lunga tradizione che evita tuttavia di farsene schiacciare, rispettoso della storia del genere senza essere citazionista, capace di divertire in modo (auto)ironico senza venir meno alla sua primaria funzione di spaventare. Soprattutto, in attesa che arrivi nelle nostre sale il comunque dignitoso Dracula 3D, i Manetti offrono in questo film un interessante uso della stereoscopia, di cui finalmente si tiene conto nella costruzione delle scenografie e nella scelta del modo di riprendere. Un espediente probabilmente non necessario ai fini della riuscita del film, ma usato qui in modo intelligente e non gratuito.
I due registi hanno parlato del loro film nell'interessante conferenza stampa romana, accompagnati dai cinque attori principali (Peppe Servillo, Francesca Cuttica, Domenico Diele, Lorenzo Pedrotti e Claudio Di Biagio) e dal musicista Pivio, le cui cupe composizioni si alternano, nel film, a pezzi di stampo hip hop e metal.

Nel vostro approccio all'horror, avete in qualche modo tenuto conto anche della declinazione orientale del genere?
Marco Manetti: L'horror è un genere che da sempre amiamo, e questa è una storia che avevamo in serbo da qualche anno. Qualche suggestione dell'horror giapponese, in effetti, ce l'abbiamo avuta; il 3D inoltre è una nuova frontiera, e anche se tecnologicamente non è ancora perfetta, volevamo provarci. L'esperimento a noi sembra riuscito, quello di questo film ci sembra un bellissimo 3D: dopo la prima settimana in cui abbiamo dovuto fare qualche aggiustamento nel modo di riprendere, girare è stato facile.
Antonio Manetti: Il nostro 3D è un elemento in più per il film: qui non ci sono effettoni come oggetti che escono dallo schermo, se non un paio di volte.

Nel film c'è qualche riferimento alla vicenda di Natascha Kampusch? (ragazza austriaca che fu tenuta sequestrata per otto anni, ndr) Marco Manetti: All'inizio non ci siamo ispirati a nessun fatto di cronaca, ma nel raccontare, poi, abbiamo approfondito varie situazioni simili, e quella della Kampusch è stata in effetti la storia che ci ha influenzati di più. Lei ha scritto anche un diario della sua prigionia, intitolato 3096 giorni; ha raccontato la sua vicenda con una certa intelligenza, sottolineando quello che si vede anche nel film, l'identificazione del carceriere con la figura paterna.

Servillo, com'è stato diventare uno psicopatico? Ha seguito una qualche preparazione?
Peppe Servillo: Anch'io ho approfondito il personaggio leggendo il libro della Kampusch. Il mio è un personaggio con un grande dinamismo e movimento, ed è interessante il modo in cui si mette in relazione con questa donna e con l'immagine che lui si crea di lei.

Il resto del cast, come si è approcciato ai rispettivi personaggi?
Claudio Di Biagio: Io adoro i personaggi horror proprio perché sono un po' stupidi: è una caratteristica necessaria, in un horror. I personaggi del genere fanno spesso delle scelte insensate che li portano alla morte, ma è necessario che sia così. E' molto divertente, comunque, come esperienza di attore, ma è da dire anche che i tre ragazzi sono reali, non costruiti: sono tre ragazzi di periferia, come se ne portrebbero incontrare molti nella vita reale.
Lorenzo Pedrotti: In effetti non sembrava nemmeno di essere in un film, eravamo tutti amici e ci divertivamo; ma c'era anche serietà nel lavorare.
Domenico Diele: Il mio personaggio, Ale, è colui che cerca di trascinare il gruppo, che esagera con la bravata ma tiene anche di più all'incolumità: lui fa di tutto per sopravvivere e reagisce a impulsi basici, come quello di pericolo-fuga.

Cuttica, la sua è una parte anomala, sicuramente complicata.
Francesca Cuttica: Io avevo già lavorato con Marco e Antonio ne L'arrivo di Wang, ma all'inizio loro non mi avevano detto niente di questo nuovo progetto. Il ruolo presentava molte difficoltà, quando li ho sentiti parlarne mi sono incuriosita e, dopo molte telefonate, ci siamo resi conto che poteva valer la pena fare un provino. Per me, era un modo per portare ai limiti estremi le mie paure, con questo film mi sono buttata in un ruolo difficile, c'era la curiosità e la voglia di provare. Alla fine, comunque, è un horror e quindi è intrattenimento: alla fine della giornata di lavoro uscivo con un sorriso, così come lo spettatore all'uscita della sala. E' un gioco, alla fin fine.

All'inizio c'è una sequenza animata davvero molto bella. Da chi è stata creata? Marco Manetti: L'autore è Sergio Gazzo, un pittore grafico. Quella sequenza serve per farti entrare nel mondo del film, tra incubi e favola.

Nel film sono rappresentate varie forme di nevrosi. Vi siete consultati con qualche specialista? Marco Manetti: No, perché non è un'opera scientifica, i personaggi corrispondono piuttosto a una nostra visione del mondo. Una consulenza avrebbe reso il tutto molto più costruito. Ogni personaggio, nel film, ha la sua evoluzione e le sue trasformazioni, ma non è osservato con un occhio scientifico.

Come ha lavorato Pivio sulla colonna sonora? Questo è il primo lungometraggio in cui non collabora con Aldo De Scalzi...
Pivio: Per me è stata una sorta di sfida, sono forse 16 anni che lavoravamo insieme, e ora per la prima volta mi trovo da solo. L'idea di base era mantenere la sensazione di un ambiente in cui qualcosa di terribile sta per accadere. Di fatto è un'unica partitura che porta al gran finale; ho utilizzato pochissimo l'orchestra anche perché il film lo permetteva, è un film volutamente "disarmonico". Mi sono potuto confrontare con realtà che non conoscevo come l'hip hop: l'idea era mantenere una compenetrazione con le immagini, interfacciandosi anche coi personaggi.

Qual è il vostro rapporto con la musica metal? Come avete scelto i gruppi? Marco Manetti: Oltre alla parte composta da Pivio, la soundtrack si divide in due parti: quella rap e quella metal. La prima parte corrisponde a quella ad ambientazione metropolitana, mentre la seconda è più legata all'angoscia e agli interni nella casa. Da anni collaboriamo con i Death SS, che hanno composto la canzone dei titoli di coda; poi ci sono le Gallhammer, tre ragazze giapponesi che fanno death metal, autrici della canzone Endless Nauseous Days: quel pezzo potrebbe essere descritto come il racconto della vicenda di Sabrina. E' l'unico pezzo preesistente che c'è nel film, abbiamo chiesto loro di poterlo inserire e loro ne sono state felici. Il testo è stata una delle fonti di ispirazione principali per il film.
Pivio: Io citerei anche i Sadist, genovesi, sconosciuti in Italia ma abbastanza famosi all'estero.

Ci sono registi o pellicole che avete citato, nel film? Marco Manetti: All'inizio si parla esplicitamente di Mario Bava, ma non è una citazione: piuttosto, un modo per descrivere il personaggio di Simone, studente di un'università in cui si studia un regista di genere, come Bava. C'è del cinema che scorre nel nostro sangue, comunque, ma magari a volte citiamo involontariamente. Non siamo citazionisti, comunque, e a me personalmente i registi citazionisti neanche piacciono.
Antonio Manetti: Solo nella scena iniziale dobbiamo riconoscere un debito: l'atmosfera è chiaramente debitrice al cinema di Dario Argento, e specialmente a Suspiria.
Marco Manetti: In effetti, pensiamo che lui sia il più grande regista dell'angoscia della storia del cinema.

Nei mesi passati si è parlato di Hollywood e di possibili remake statunitensi dei vostri film... Marco Manetti: Stiamo trattando per varie cose, in effetti, ed è possibile che un giorno L'arrivo di Wang avrà un remake americano.

Il film ha una distribuzione più capillare e significativa rispetto alle vostre pellicole precedenti... Marco Manetti: Noi finora siamo entusiasti del lavoro di Medusa, non grati ma proprio entusiasti. Da parte loro c'è stata, nel tempo, una crescita di fiducia rispetto a questo progetto.
Antonio Manetti: I nostri film precedenti uscivano in molte meno sale: si spera che questo nostro esperimento possa aprire le porte a una distribuzione diversa anche per altre pellicole analoghe.

Nel film viene citato anche E.T.A. Hoffmann, con il libro presente nella stanza del marchese. Come avete avuto l'idea? Marco Manetti: Ma quello di Hoffmann è un uso del racconto, non una citazione... Quello del marchese è un personaggio pazzo che però vorrebbe essere normale, che cerca una giustificazione alle sue malattie. Hoffmann rappresenta un po' una sua auto-giustificazione, Sabrina è come la sua "bambola meccanica". Lui ha scelto semplicemente di possederla, come possiede le sue chitarre senza amplificatori e i suoi videogiochi probabilmente mai giocati.

Nelle note di regia del pressbook, avete dichiarato che "ora è difficile anche solo pensare di fare un altro tipo di film"... Marco Manetti: Chissà. Noi amiamo molto i film che toccano il lato oscuro, ma da scrittori e registi non ci eravamo mai buttati nel genere. Una volta toccato questo lato oscuro, da autori e non solo da spettatori, in effetti è difficile liberarsene. Ma non è che sia un obbligo continuare su questa linea: ora per esempio stiamo preparando una commedia poliziesca. L'idea di confrontarci di nuovo con l'horror, comunque, esercita su di noi una grande attrazione.

Avete per caso pensato anche a una prosecuzione della storia? Marco Manetti: Dico la verità, per noi è difficile pensare a un film senza il suo sequel. Ci viene sempre in mente di sviluppare le storie su più film: abbiamo pensato a un sequel di questo film, così come de L'arrivo di Wang e di Zora la vampira. Ma forse questo non andrebbe detto in una conferenza stampa, perché si tratta di semplici pensieri, anzi, più che altro di cazzeggi.

Il film avrà anche una distribuzione estera? Antonio Manetti: Per ora no, anche se i nostri film precedenti, tra cui l'ultimo, sono andati molto bene all'estero. Per questo, comunque, abbiamo deciso per ora di tenerci i diritti. Vedremo e valuteremo a seconda di quali saranno i risultati.
Marco Manetti: Comunque il film è stato selezionato in due festival specializzati: quello di Neuchatel e il Fright Fest di Londra. Si tratta di due manifestazioni molto importanti per il genere fantastico.