Recensione Confession of a Child of the Century (2012)

Un brutto passo falso per la regista Sylvie Verheyde che, dopo aver convinto un po' tutti con il delicato Stella, sembra ora ottenere l'esatto contrario con un film che da un punto di vista narrativo funziona davvero poco, anzi risulta poco appassionante, se non addirittura noioso.

Gli amori impossibili di un 'libertino'

Parigi, 1830. Octave (Pete Doherty) è un ricco giovane che scopre che la donna di cui è innamorato, la bella Eloise (Lily Cole), lo tradisce con un altro uomo. Ne scaturisce l'inevitabile il duello in cui Octave però viene ferito, ancor più nell'anima che nel fisico: è così che finisce per affidarsi alla "cura" dell'amico libertino Degenais (August Diehl) che lo conduce in un mondo fatto di chiassose feste con fiumi di alcool e prostitute. E' soltanto la morte del padre e il conseguente ritorno in campagna che riconduce Octave ad una vita meno dissoluta e soprattutto gli permette di conoscere Brigitte (Charlotte Gainsbourg), una piacente vedova più matura di lui di dieci anni.

Confession of a Child of the Century è quindi una prevedibile storia d'amore dall'ambientazione ed atmosfera post romantica, la storia di un sentimento apparentemente non contrapposto o comunque destinato a non sopravvivere a causa delle rigide regole imposte dalla società di allora. L'unico aspetto che avrebbe potuto rendere più fresca una pellicola nata già "vecchia" è la scelta di affidare il ruolo di protagonista alla rockstar, ma in realtà si tratta di una scelta tanto coraggiosa quanto sbagliata viste le qualità attoriali mostrate da Doherty.

Se infatti la Gainsbourg è come sempre convincente nei ruoli in costume (al punto da ricordare, in alcune inquadrature, addirittura la Jane Eyre di Zeffirelli di oltre quindici anni fa) e August Diehl se non altro ha il physique du role, Doherty appare visivamente spaesato in ogni scena della pellicola, e per un personaggio che è su schermo praticamente per l'intera durata della pellicola non è certamente un problema da poco. Viene da chiedersi se almeno abbia effettuato un provino o un test, o se sia stato semplicemente scelto per il suo passato di leader della band The Libertines.

Si tratta di un brutto passo falso per la regista Sylvie Verheyde che, dopo aver convinto un po' tutti con il delicato Stella, ora sembra ottenere l'esatto contrario con un film che se dal lato tecnico non fa gridare al miracolo ma comunque non ha particolari difetti, da un punto di vista narrativo non solo funziona davvero poco, anzi risulta poco appassionante, se non addirittura noioso. L'unica cosa che effettivamente tiene svegli è il continuo chiedersi da parte dello spettatore del perché mai in un film ambientato in Francia, tratto da un romanzo francese e adattato sul grande schermo da una regista transalpina, non solo la lingua parlata sia l'inglese (non sarà certamente né la prima né l'ultima volta che questo avviene in una produzione intenernazionale) ma anche i modi, i toni e l'atteggiamento di gran parte dei protagonisti sia palesemente british.

Movieplayer.it

2.0/5