Recensione Resident Evil: Afterlife (2010)

Questo Resident Evil: Afterlife, già dal titolo, intende raccontare il dopo: un dopo in cui il destino del mondo sembra ormai segnato e in cui la guerriera Alice sembra essere ormai rimasta a combattere da sola. Ma un nuovo inizio si rivelerà possibile.

Dopo l'estinzione, un nuovo inizio

Apocalypse, Extinction, Afterlife, con in mezzo lo "spurio" Degeneration: una progressione anche semanticamente significativa, per i sequel dell'originale Resident Evil, film che per primo, nel 2002, aveva portato al cinema motivi e atmosfere di una delle più fortunate saghe videoludiche degli ultimi anni. Una saga che anche nell'estetica, pur restando ferma una certa impostazione da videogame della messa in scena, ha differenziato i suoi riferimenti cinematografici ad ogni episodio: dalle atmosfere da horror tecnologico del prototipo a quelle da action movie futuristico del secondo film, per arrivare ai paesaggi western desolati e post apocalittici del terzo episodio, debitori degli indimenticati vagabondaggi di un ancora giovane Mel Gibson in una saga cult come quella di Mad Max. Questo Resident Evil: Afterlife, già dal titolo, intende invece raccontare il dopo: un dopo in cui il destino del mondo sembra ormai segnato, e in cui la guerriera Alice (ancora interpretata dall'inossidabile Milla Jovovich) sembra rimasta da sola a combattere contro sterminate orde di morti viventi da un lato, e la perfida Umbrella Corporation dall'altro. Liquidata nei primi minuti la trovata "moltiplicativa" con cui si chiudeva il film precedente, azzerati i poteri psicocinetici della protagonista (quasi a far tabula rasa di sviluppi narrativi che forse non avevano convinto del tutto il regista Paul W.S. Anderson, tornato qui dietro la macchina da presa), la vicenda entra nel vivo quando Alice giunge nella misteriosa Arcadia, luogo che avrebbe dovuto offrire rifugio e sostegno ai superstiti della razza umana, e si rivela invece essere solo una spiaggia deserta, abbandonata da tempo. Qui, Alice incontra una sua vecchia conoscenza, la giovane Claire, che sembra però essere stata colpita da amnesia: nella speranza che quest'ultima ritrovi la memoria e possa spiegare ciò che le è successo, le due donne partono alla ricerca di quella che è forse la vera Arcadia. Ma questo luogo mitico potrebbe rivelarsi più pericoloso del previsto.

Il film riprende in parte le suggestioni post-apocalittiche che avevano caratterizzato il terzo episodio, spostando tuttavia l'azione dalle lande desolate del deserto del Nevada al cupo paesaggio metropolitano di una Los Angeles ormai preda dei non-morti, in cui uno sparuto gruppo di sopravvissuti si è barricato in un ex-carcere militare. E' infatti proprio il motivo dell'assedio a caratterizzare una buona parte della pellicola, con una progressione drammatica che si rifà chiaramente a un classico come il carpenteriano Distretto 13: le brigate della morte (che a sua volta aveva tratto ispirazione dall'indimenticato Un dollaro d'onore di Howard Hawks), film di cui viene ripreso anche il motivo del prigioniero che si rivelerà chiave di volta per la fuga dei protagonisti. Un riferimento che fa sì che il film, seguendo in questo il solco tracciato dagli episodi precedenti, si discosti ancor più marcatamente dalle atmosfere horror del prototipo del 2002, mostrando invece scene d'azione elaborate quanto visivamente stordenti. L'inevitabile novità del 3D si rivela qui più indovinata di quanto fosse lecito sperare: se da un lato infatti il film non rinuncia agli espedienti più vecchi e facili di questa tecnologia, come gli oggetti lanciati contro lo spettatore e le esplosioni che bucano lo schermo, dall'altro si cerca anche di sfruttare la profondità di campo e di usare una logica immersiva, che specie nelle sequenze più claustrofobiche offre buoni risultati.

Il film ha ovviamente i suoi limiti in una sceneggiatura abbastanza lineare (che comunque non presenta macroscopiche incongruenze) e in un villain privo di carisma, che appare solo a inizio e fine film ed è interpretato dall'attore canadese Shawn Roberts. Se il carattere in fondo fracassone della messa in scena non disturba più di tanto, e le sequenze d'azione risultano comunque, per la maggior parte, perfettamente leggibili, non si può non restare perplessi (e legittimamente nauseati) a vedere nel 2010 l'ennesimo bullet time ricalcato in carta carbone da un Matrix qualsiasi, con l'aggiunta di una tridimensionalità che non lo rende per questo meno gratuito e inutile. Nonostante ciò, questo Resident Evil: Afterlife raggiunge lo scopo di intrattenere con buon ritmo e senso dello spettacolo, e la Jovovich dopo quattro episodi sembra ancora perfettamente a suo agio nel suo ruolo, sexy e spietata nella stessa misura. E sul prosieguo della saga, a questo punto, restano pochi dubbi.

Movieplayer.it

3.0/5