Recensione Postal (2007)

Rispetto ai connotati tetri del mondo post-11 settembre Uwe Boll ha intrapreso, con accanimento degno di un mastino, la strada della dissacrazione totale.

Destinazione Paradise

Possibile che per il teutonico Uwe Boll la vita sia tutta un gioco? Forse no, più difficile negare che il suo cinema sia tutto o quasi un videogioco, poiché è da lì che una parte considerevole delle sue truculente pellicole trae ispirazione. Il cineasta tedesco, specializzato in horror, è arrivato a conquistarsi presso molti la fama di peggior regista del mondo, proprio per gli adattamenti cinematografici di videogames come House of the Dead e Alone in the Dark. Quasi un Ed Wood partorito dalla generazione di Pac-Man. È naturale, allora, che nei confronti dell'ennesimo film tratto da un videogame di successo, Postal, si potesse reagire con estremo sospetto. Ma alla prova del nove le pernacchie e gli sberleffi annunciati hanno lasciato il posto, come per magia, a crasse risate, applausi festosi e altri segni di complicità; almeno da parte di quegli spettatori, maggiormente inclini all'irriverenza o più semplicemente restii alla seriosità di molti cinefili, che hanno scelto di stare al (video)gioco. Già, perché in definitiva Postal non fa altro che rimasticare le cadute di gusto, la violenza gratuita, le scene pruriginose e la zoppicante costruzione narrativa delle precedenti, discutibilissime opere, assecondando però una voluttuosa e disinibita aspirazione alla farsa più sguaiata, espressa in modo finalmente consapevole.

Così come le stelle del basket NBA, alle Olimpiadi di Pechino, si sono raccolte nel tanto decantato "redemption team" per vendicare le disfatte sportive degli ultimi anni e tenere alti i colori dell'America, Uwe Boll si è inventato un percorso di redenzione che va proprio nella direzione contraria: girare un film completamente assurdo negli Stati Uniti, rendendoli oggetto di una satira feroce e volgare che ruota però a 360 gradi, colpendo di striscio le follie più vistose della contemporaneità. Rispetto ai connotati tetri del mondo post-11 settembre Uwe Boll ha perciò intrapreso, con accanimento degno di un mastino, la strada della dissacrazione totale. Questa sua personalissima redenzione ha inizio a Paradise. Paradise è l'immaginaria località americana dove convergono le demenziali imprese di una massa eterogenea di personaggi: terroristi talebani votati (con molte riserve) al martirio, poliziotti di colore dal grilletto facile, portatori di handicap sfruttati per le elemosine, santoni arrapati che per fare soldi scrivono bibbie da reality show, imprenditori di origine germanica con spiccate simpatie neo-naziste (da incorniciare, per inciso, il beffardo cameo del regista). I mentori di questa carnevalata dichiaratamente trash sono proprio loro, Bush e Osama, ritratti in scenette irresistibili come due amiconi sempre pronti a darsi una mano, magari progettando insieme qualche esplosione nucleare. Dal protagonista assoluto di tale delirio non ci si poteva certo aspettare il classico fusto hollywoodiano che sa sempre cosa fare. Ed infatti Postal Dude, quello che nel videogame sparava senza sosta sui passanti, ha la faccia da schiaffi di Zack Ward e veste i panni del classico "eroe per caso": un cittadino tartassato, scontento, frustrato, la cui specialità è risolvere suo malgrado qualche casino per cacciarsi immediatamente nel successivo, in un tripudio di mattanze, esplosioni, piani demenziali e inseguimenti ridicoli.

Bisogna ammettere che la ricerca fin troppo programmatica del "politicamente scorretto" da parte di Uwe Boll rischia di compromettere, almeno in parte, la riuscita dell'operazione. Sono altresì pericolose quelle cadute di umorismo, che appesantiscono a volte i dialoghi. Ma il crucco ha saputo ulteriormente motivare le continue sfide alla censura, le numerose infrazioni alle regole del buon gusto, gli sberleffi indirizzati con salace disprezzo alle autorità politiche e religiose più in voga, convogliando il tutto verso un'estetica trasandata, impertinente, senza ritegno, la cui irriverenza può ricordare nei momenti più gustosi i film della Troma; dal tematicamente affine Troma's War al metacinematografico, ma in modo malato, Terror Firmer. Accade così che in Postal si ironizzi sulle vittime di una sparatoria, quasi tutti bambini, o che si affidi al protagonista un prevedibile pistolotto sulla fratellanza universale, apparentemente compreso dai presenti ma interrotto all'improvviso da estemporanee dichiarazioni di odio verso gli Ebrei. In questo gioco al massacro va apprezzata, secondo noi, la provvidenziale scoperta dell'auto-ironia da parte dell'autore; sì, perchè l'apparizione di Uwe Boll nei panni di un losco imprenditore, che ammette candidamente di aver utilizzato l'oro nascosto dei nazisti per finanziare pessimi horror tratti da videogames, è una trovata goliardica che potrebbe suscitare simpatia persino nei detrattori più accaniti. In chi vi scrive, è giusto riconoscerlo, ha spianato la strada per una (im)possibile, clamorosa riabilitazione dell'Ed Wood teutonico.