Daniele Vicari: 'Diaz è la coscienza di un Paese'

Lungo e interessante incontro con la stampa questa mattina per il regista di Diaz - Don't clean up this blood, che a undici anni di distanza dal G8 di Genova racconta in maniera dettagliata quanto avvenne la notte del 21 luglio del 2001; 'Ho evitato la trappola del cinema politico, per spingere il pubblico a interrogarsi sul senso della democrazia'.

Ancora sette giorni di attesa e poi arriverà nelle sale italiane Diaz, il bel film di Daniele Vicari che a undici anni di distanza dal G8 di Genova racconta in maniera dettagliata quanto avvenne la notte del 21 luglio del 2001, attraverso le storie di un gruppo eterogeneo di personaggi, dal poliziotto che ha condotto l'assalto alla scuola Diaz, ad alcuni manifestanti e giornalisti. Il confronto con il pubblico, in particolare quello dei più giovani, che di quella storia conoscono poco o nulla, è dunque una tappa fondamentale per un'opera del genere, già premiata dalla giuria popolare all'ultima Berlinale nella sezione Panorama. Una pellicola durissima, quella di Vicari, prodotta e distribuita da Fandango, che racconta con dovizia di particolari il blitz delle Forze dell'Ordine nel complesso scolastico Diaz-Pascoli, sede del Genoa Social Forum; un'operazione organizzata contro ipotetici black block, che ha portato al fermo di 93 persone, perlopiù studenti e giornalisti, trasportate poi nel carcere/caserma di Bolzaneto e ulteriormente sottoposte a violenze da carabinieri, guardie penitenziarie, medici ed infermieri, 44 dei quali condannati in Appello per abuso d'ufficio, abuso di autorità contro arrestati o detenuti, violenza privata. Scrupoloso nella ricostruzione della cronaca di quei tre giorni del luglio 2001, segnati dalla morte di Carlo Giuliani, dagli scontri fra manifestanti e polizia per le strade di Genova, il film si è basato sugli atti giudiziari del processo che in Appello ha visto la condanna per lesioni, falso in atto pubblico e calunnia per 29 dei 300 poliziotti che parteciparono al blitz, definito da Amnesty International come la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda Guerra Mondiale. Nel lungo e approfondito incontro che si è tenuto questa mattina a Roma alla presenza del regista e di parte del cast, che comprende Claudio Santamaria, Jennifer Ulrich, Renato Scarpa, Ignazio Oliva e Davide Iacopini, si è parlato del clima che sta anticipando l'uscita della pellicola, destinata fortunatamente a far discutere di un evento epocale nella recente storia italiana. E nell'attesa che il film sia visto dai vertici politici italiani, il prossimo 15 maggio si terrà una proiezione presso il Parlamento Europeo organizzata dal gruppo dell'Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici.

Come commentate la recente circolare del ministero dell'Interno che invita gli agenti di Polizia a non rilasciare dichiarazioni su film che, citiamo testualmente '_affrontano la ricostruzione storica di eventi relativi ad attività di polizia in situazioni ordinarie e straordinari_e'? Daniele Vicari: conosco molti agenti di polizia che reputo incapaci di compiere quanto descritto negli atti del processo e mi auguro che gli uomini e le donne che vestono questa divisa vadano a vedere il film proprio per avere il giusto termine di paragone con la propria esperienza. Questo film deve essere considerato come un'occasione per riflettere sul ruolo che certi corpi hanno all'interno di una democrazia matura e non lo spunto per l'ennesima lite. In fondo il tema della pellicola è proprio questo, sapere quello che è una democrazia. In questi mesi Domenico ha fatto davvero di tutto per cercare un dialogo, un confronto con le autorità, che rispondono con assoluto silenzio. E non mi riferisco solo alla Polizia ma a tutte le istituzioni. Più che il singolo poliziotto ad esprimersi dovrebbero essere proprio loro e sarebbe bene che lo facessero prima che arrivi la sentenza della Cassazione, altrimenti non c'è da stupirsi se i cittadini smettono di credere in certi valori. A Genova la prima vittima è stata la civiltà, poi ci sono stati i corpi e le coscienze delle persone coinvolte.
Domenico Procacci: era nella logica delle cose che si coordinassero per non lasciare spazio a prese di posizione singole e posso anche capirlo, ciò che non comprendo e che mi procura dispiacere è che si continua a seguire una linea ben precisa tracciata in questi undici anni. Non lo nego, mi piacerebbe che il Ministro vedesse il film, nei giorni scorsi ci sono stati contatti con la sua segreteria, ma non hanno portato a nulla, anche se non dispero. Per riprendere il discorso iniziale di Daniele, molti poliziotti che ho incontrato si sono detti critici nei confronti di quanto successo alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto e anche io sono convinto che bisogna fare qualcosa prima della sentenza della Cassazione. E' troppo comodo nascondersi dietro alla presunzione di innocenza, in realtà gli elementi per esprimere un giudizio ci sono tutti. Il comportamento degli agenti ha infranto la legge. Perché esiste una convenzione dell'Onu in cui si auspica che il reato di tortura sia inserito nell'ordinamento giuridico di un paese e da noi non è ancora successo? Perché non adottiamo un codice identificativo alfanumerico per avere traccia delle azioni di un poliziotto, come avviene in tutto il mondo? E' normale che se la polizia indaga su sé stessa, lo spirito di corpo sconfinerà nell'omertà, un atteggiamento che è più forte del senso dello Stato. Purtroppo, tante cose che si potevano fare non sono state fatte in questi anni.

Daniele, che esperienza è stata quella di leggere tutti gli atti del processo?
E' stata un'esperienza umana prima che lavorativa. Leggere di seguito tutti gli atti ci ha permesso di ricostruire un tessuto narrativo, chiarendo meglio i destini di quelle persone a cui è stata sottratta la dignità in maniera coordinata e continuata. Sull'argomento avevo solo un'idea politica, cioè pensavo che con quell'azione in qualche modo si volesse fermare il movimento. Poi, studiando il materiale a disposizione, mi sono accorto che si è consumata una tragedia molto più grande, un atto senza precedenti nella storia. Nell'ottica di una dialettica tra Stato e Manifestanti ci può anche stare che si risponda in una determinata maniera a certe azione. Ciò che è inaccettabile è far perdere ad una persona la dignità di essere umano. Un padre di famiglia che ti manganella e poi torna a casa de dà una carezza al figlio non è più un padre di famiglia, ma è un aguzzino che ti vuole togliere la vita e se hai la divisa non fa differenza.

In che modo questo lavoro sui documenti vi ha aiutati dal punto di vista della scrittura della sceneggiatura?
Abbiamo tirato fuori vicende di singoli personaggi che potessero intrecciare a dovere con i momenti più importanti. Molte di quelle persone le abbiamo incontrate, ma non per farci raccontare qualcosa in più, gli atti erano più che dettagliati, quanto per guardarli negli occhi e cercare di capire quale fosse il loro vissuto.

Avete dovuto tralasciato qualcosa?
Sì, ma era assolutamente naturale che succedesse, vista la vastità dei processi, assimilabili a quelli per mafia. Ciò che è successo a Bolzaneto lo raccontiamo attraverso le vicende di Alma, la ragazza tedesca, in quattro o cinque scene, ma in quella caserma sono state rinchiuse 200 persone e in quei giorni sono successe delle cose che non avrei neanche saputo come raccontare. Tanto che al termine della premiere genovese il Pubblico Ministero che seguì il processo, Enrico Zucca, ha scritto un pezzo per Il Secolo XIX in cui spiega che nella realtà sono successe cose ben peggiori di quello che si vede nel film.

Quindi avete limitato allo stretto indispensabile la finzione...
Dall'irruzione alla Diaz, fino al termine del film non c'è stata una sola cosa inventata. Il livello di tradimento è stato legato a necessità drammaturgiche elementari.

E' la prima volta che dirigi un film ispirato da una storia vera, qual è stata la sfida più grande per te?
La cosa più importante e più difficile quando si gira un film ispirato a una vera vicenda è rispettare il fatto in maniera assoluta, senza costruire teorie. Quelle non competono al cinema, semmai ai cronisti che devono sviscerare l'argomento vino a cavare il sangue dalla rapa. Il cinema è un prodotto di fantasia, per questo ritengo inappropriato l'utilizzo dell'aggettivo 'civile'. In quanto regista devo restituire il senso degli avvenimenti, in questo caso il senso è nel modo in cui sono stati sospesi i diritti civili, nella devastazione fisica e spirituale delle vittime. Mi sono voluto sottrarre al meccanismo del cinema politico, certe pellicole invecchiano dopo tre minuti. Il mio obiettivo principale era quello di far porre agli spettatori una domanda radicale sul senso della democrazia evidentemente ancora non compiuta. Riguarda la coscienza di tutti noi.

Nel film ci sono poche immagini di repertorio...
Circa 3 minuti di girato che comunque è stato fondamentale per ricostruire l'atmosfera e i costumi di quei giorni. Quello fu un evento mediatico eccezionale, ripreso in tanti modi soprattutto grazie ad alcuni documentaristi. E' naturale che le immagini di repertorio siano più belle di qualunque messa in scena.

Come hai lavorato sulla durissima sequenza del blitz della polizia?
L'assalto è durato nove minuti, ho voluto dare spazio ai diversi punti di vista dei personaggi per restituire la sensazione di tempo dilatato. Per questo alla fine la sequenza dura il doppio del tempo reale.