Recensione 2012 (2009)

La narrazione in sé passa in secondo piano di fronte a uno stordimento sensoriale che diventa principale ragion d'essere. E' tenendo bene a mente questo discorso che ci si deve approcciare a un film come '2012', ultimo gigantesco sforzo del regista di 'Stargate', imponente e rutilante blockbuster che sfrutta paure e suggestioni new age per offrire l'ennesimo sfoggio di distruzione cinematografica.

Cronaca di un'apocalisse annunciata

Roland Emmerich va dritto per la sua strada. C'è in effetti una coerenza notevole, nel percorso cinematografico del regista di origini tedesche, che dai tempi del suo trasferimento a Hollywood (avvenuto nel 1992 col b-movie I nuovi eroi) non si è discostato (quasi) mai dal genere fanta-apocalittico che gli ha dato il successo. Basta questa fedeltà a sé stessi a delineare qualcosa che somigli a una poetica? A parere di chi scrive no, e non sarebbe utile, né produttivo, fare voli pindarici e dialettici per trasformare il cinema di Emmerich in ciò che non è; è infatti una tentazione assai pericolosa quella di cercare sottotesti e temi da "morte del cinema" in film che restano (ma il discorso può essere esteso ad altre pellicole e ad altri registi) macchine da intrattenimento studiate e curate maniacalmente negli aspetti visivi e più superficialmente emotivi, in cui la narrazione in sé passa in secondo piano di fronte a uno stordimento sensoriale che diventa loro principale ragion d'essere. E' tenendo bene a mente questo discorso che ci si deve approcciare a un film come 2012, ultimo gigantesco sforzo del regista di Stargate, imponente e rutilante blockbuster che sfrutta paure e suggestioni new age per offrire l'ennesimo sfoggio di distruzione cinematografica.

E sembra effettivamente divertirsi come un bambino, Emmerich, a disintegrare sullo schermo città, nazioni e continenti, a offrire spettacoli di devastazione apocalittica tra crateri che si aprono e miracolosamente non ingoiano mai i protagonisti, grattacieli che crollano decretando in pochi secondi la fine della civiltà occidentale, vulcani che eruttano sputando fuochi che sembrano armi aliene, gigantesche maree che inghiottono politici e gente comune, militari e cantanti, eroi e codardi. In mezzo a tutto questo, uno scrittore squattrinato e divorziato che cerca di recuperare un rapporto con i suoi due figli, un hippie mezzo svitato che, come da copione, aveva previsto tutto, un presidente di colore che con uno scatto di orgoglio patriottico decide di restare a fianco dei suoi cittadini, qualunque siano le conseguenze. E un programma segretissimo con lo scopo di selezionare i più adatti al proseguimento della specie, quelli che dovranno ricostruire la società dopo il cataclisma, quelli con le capacità (mentali e fisiche sulla carta, economiche nei fatti) più adatte alla sopravvivenza; il tutto su postmoderne arche che rinnovano un mito, quello del Diluvio, che si dice sia stato molla ispiratrice, nella mente del regista, per l'intero progetto. Ed è forse interessante, almeno a livello di curiosità speculativa, notare che il tema era già stato affrontato da Emmerich nel suo primissimo lungometraggio, intitolato 1997 - Il principio dell'Arca di Noè e realizzato nel 1984 per la Munich Film School, in condizioni produttive ovviamente lontanissime da quelle attuali.
E' forse utile spendere due parole anche sull'aspetto sociologico (in senso lato) del film, sulle suggestioni che offre, sulle idee che cerca, più o meno consapevolmente, di veicolare. La profezia maya che colloca la fine del mondo alla data del 2012 (com'è noto ripresa da teorie moderne più o meno discordanti tra loro) resta fortunatamente sullo sfondo, mentre è comunque presente, nel film, il tema new age della rinascita, l'enfasi sul nuovo inizio e sull'importanza della solidarietà come fondamento per esso, l'ovvia affermazione della morale a stelle e strisce come base più adatta per realizzarlo. Tutti temi trattati in modo abbastanza schematico, soffocati dalle necessità di intrattenimento del film, non sviluppati da una sceneggiatura che volutamente non va a fondo, neanche nella definizione dei personaggi. I quali da par loro risultano stereotipi o poco più, con in testa quello di un John Cusack un po' statico nella recitazione, e di un Danny Glover che almeno non cerca mai di imitare Barak Obama.
E parlando di attualità, risulteranno divertenti, per il pubblico italiano, i riferimenti alla nostra politica e specie all'attuale Presidente del Consiglio: i sorrisi più genuini (più o meno cattivi) vengono forse proprio da quelle scene. Ma in fondo i blockbuster (americani) non si occupano mai di politica estera. O sì?

Movieplayer.it

2.0/5