Recensione L'homme qui rit (2012)

Con un'estetica gotica e fiabesca, in parte debitrice alle opere del primo Tim Burton, il francese Jean-Pierre Améris porta sullo schermo, per la terza volta, un noto romanzo di Victor Hugo.

Come una specie di sorriso

Il piccolo Gwynplaine, orfano, viene abbandonato dalla tribù dei Comprachicos, che lo avevano rapito mentre era ancora in fasce e gli avevano lasciato addosso uno sfregio permanente: una sorta di largo sorriso che gli ha deformato irrimediabilmente il volto, trasformandolo in una specie di freak. Il ragazzino, senza un posto dove andare, vaga sotto la neve e trova sulla sua strada Déa, una bambina cieca che ha appena perso sua madre, morta assiderata. Mentre cercano un riparo dalla tempesta, allo stremo delle forze, i due vengono raccolti da Ursus, imbonitore e venditore di erbe medicinali, che li prende con sé sul suo carro. Anni dopo, Gwynplaine e Déa hanno sviluppato un forte affetto reciproco, e sono diventati i protagonisti dello spettacolo itinerante dell'"uomo che ride": il giovane col sorriso permanente è diventato ormai un fenomeno da baraccone, un freak che stupisce e spaventa chiunque si trovi a guardarlo durante le peregrinazioni, di città in città, attraverso le quali Ursus porta in giro il suo show. Quando però, tra gli spettatori della rappresentazione, Gwynplaine si trova davanti un'attraente duchessa, qualcosa tra i due scatta; la nobildonna, astuta e subdola, cerca in tutti i modo di strappare il giovane all'amore di Déa e alla compagnia di saltimbanchi. In questo suo scopo, la duchessa troverà un'inattesa facilitazione nella scoperta dei natali del giovane, ma anche nella volubilità dello stesso carattere di Gwynplaine.

Con un'estetica gotica e fiabesca, in parte debitrice alle opere del primo Tim Burton, il francese Jean-Pierre Améris (si ricordi la sua commedia Emotivi anonimi) porta sullo schermo, per la terza volta, un noto romanzo di Victor Hugo. L'homme qui rit è in effetti storia, in sé, molto cinematografica: Hugo raccontò una vicenda morale, che rientrava perfettamente nei canoni del romanzo sociale di cui l'autore francese era esponente, ma con l'aggiunta di forti elementi gotici e romantici, particolarmente adatti ad essere trasposti sul grande schermo. Non è un caso che l'inquietudine del freak costretto a sorridere abbia contaminato anche altre forme di espressione artistica, prima tra tutte quella del fumetto: viene subito in mente il personaggio di Joker, nemesi di Batman, che nella sua concezione fisica fu diretta emanazione del malinconico personaggio di Hugo. Così, l'uomo che ride torna sullo schermo col volto e le fattezze di Marc-André Grondin, con un carismatico Gerard Depardieu a fargli da padrino e i due volti femminili di Christa Théret ed Emmanuelle Seigner a contendersi un posto nel suo cuore, nonché la sua appartenenza ai rispettivi mondi.
Quella del freak sorridente è in effetti una parabola morale e sociale, la storia di un individuo di stirpe nobile che, a causa di una menomazione fisica, viene accolto dai bassifondi, ad essi si lega e per essi finisce per battersi. La sceneggiatura sceglie tuttavia di eliminare dalla vicenda originale qualsiasi riferimento al periodo storico in cui era inizialmente ambientata (il XVIII secolo) con lo scopo di renderla in qualche modo universale: in questa sua rilettura cinematografica, la storia di Hugo potrebbe infatti essere introdotta col più classico dei "c'era una volta", tanto è atemporale la sua concezione, nonché archetipici i suoi riferimenti (il palazzo reale, i saltimbanchi, l'amore puro - perché cieco - contro quello contaminato dall'interesse). Visivamente, l'impostazione del film è in ciò coerente: le scenografie gotiche e immerse nell'oscurità, la fantasia degli spettacoli di strada dei protagonisti, i labirintici interni del castello e quelli cupi del carcere sotterraneo: tutto punta a blandire lo spettatore, a cullare il suo senso di meraviglia, con suggestioni fiabesche, quasi da racconto fantasy. La cura visiva del film, ai limiti dell'estetizzazione, è la sua prima caratteristica che salta all'occhio, in linea con il potente commento musicale del compositore ceco Stéphane Moucha.
Tuttavia, nonostante le sue suggestioni e il tentativo di rilettura in chiave moderna (e universale) del romanzo originale, L'homme qui rit in mano ad Améris diventa storia esile, risaputa e poco attraente. E' abbastanza inutile limitarsi a caricare di elementi l'aspetto visivo del film, mantenendosi nel contempo fedeli all'intreccio originale, se non si offre una lettura davvero personale, ma soprattutto conscia delle peculiarità del mezzo, della vicenda narrata. La storia resta sostanzialmente quella di Hugo, una parabola la cui concezione affonda nella narrativa di due secoli fa (ed oltre): limitarsi a riproporla oggi, con la semplice rispolverata estetica che qui vediamo, significa svuotarla in gran parte di contenuti e (soprattutto) di potere affabulatorio. Nella sua resa filmica, quello di Améris resta fondamentalmente un film piatto e anonimo, benché piacevole da guardare. Se si vuole vedere Hugo al cinema, in una rilettura davvero moderna, molto meglio rivolgersi a Robert Guédiguian e al suo Le nevi del Kilimangiaro; se invece si vuole il gotico burtoniano, e tutto ciò che ne consegue, tanto vale sperare nell'imminente nuova prova dello stesso regista (l'atteso e temuto Frankenweenie), cercando di dimenticare le sue più recenti, poco promettenti uscite.

Movieplayer.it

3.0/5